Dike giuridica, Istituti e sentenze commentate

La responsabilità precontrattuale: una responsabilità dall’anima incerta*

  1. Introduzione

Vigente il codice del 1865 la dottrina italiana era pressoché unanime nel negare responsabilità durante le trattative in omaggio al principio della libertà delle parti in questa fase, col limite della configurabilità della responsabilità extra-contrattuale. Il codice vigente, con una norma nuova rispetto al precedente, ha disciplinato la responsabilità precontrattuale agli artt. 1337 e 1338 c.c., che rispettivamente prendono in esame la violazione del canone di buona fede e l’omessa comunicazione di una causa di invalidità conosciuta o conoscibile.

Il legislatore del 42 ha voluto in definitiva disciplinare, moralizzandola, la trattativa contrattuale e la formazione del contratto, e in difetto di una precedente casistica ha preferito riconoscere la culpa in contrahendo attraverso un’espressione elastica. L’interesse tutelato è all’evidenza l’interesse del soggetto a non essere coinvolto in trattative inutili, a non subire coartazioni, e comportamenti sleali che inquinino il regolare svolgimento dei traffici negoziali. Non è, per contro, tutelato l’interesse a ottenere la conclusione del contratto, in coerenza con l’impianto codicistico che all’art. 1328 c.c., primo comma, prima parte dispone che “la proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso; se dunque la proposta che è atto completo e “definitivo” può essere revocata, a maggior ragione deve essere lecito recedere dalle trattative che costituiscono uno stadio meno avanzato nella formazione del contratto.

La responsabilità precontrattuale può conseguire tanto in relazione al processo formativo del contratto, quanto in rapporto alle semplici trattative, considerate come qualcosa di diverso da esso, ossia come quella fase anteriore in cui le parti si limitano a manifestare la loro tendenza verso la stipulazione del contratto, senza ancora porre in essere alcuno di quegli atti di proposta e di accettazione che integrano il vero e proprio processo formativo(Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2003, n. 11243).

La responsabilità precontrattuale sta conoscendo un processo evolutivo importante quale tecnica di tutela dei contraenti deboli. In tale senso milita la dilatazione della responsabilità in esame (dai casi classici delle trattative infruttuose (ossia non seguite dal contratto o seguite da un contratto invalido e inefficace, come si vedrà nel prosieguo), in cui viene in rilievo il danno da lesione dell’interesse negativo a non essere coinvolto in trattative inutili; ai casi, di nuova generazione, delle trattative che, per effetto dell’altrui comportamento scorretto, sfocino in un contratto valido ma iniquo. In quest’ultimo caso, come si vedrà, il danno risarcibile è dato dall’interesse positivo differenziale, legato cioè al vantaggio che sarebbe stato conseguito in caso di stipula di un contratto non influenzato nel suo contenuto dall’altrui condotta abusiva. In particolare, lo sviluppo pretorio di forme di responsabilità precontrattuale ulteriori rispetto al recesso ingiustificato dalle trattative (per il quale è necessario che queste si trovino in uno stadio avanzato al punto tale da ingenerare l’affidamento nello sbocco positivo) rende fisiologico, specie per il difetto o la falsità delle informazioni che sfoci in un contratto dannoso, che la responsabilità concerna anche contratti senza trattativa, che si formino con l’incontro istantaneo di proposta ed accettazione (per es. in caso di proposta, immediatamente accettata, contenente informazioni erronee, come tale violativa del canone di buona fede).

2. La responsabilità precontrattuale: una responsabilità dalla natura incerta

L’espressione “responsabilità precontrattuale” ha un’indubbia valenza descrittiva, ma nulla dice circa la natura giuridica della stessa. Il dibattito dottrinale, che ci accingiamo a ripercorrere, è diviso tra i sostenitori della natura contrattuale e i fautori della natura aquiliana.

2.1 La tesi della natura aquiliana

L’orientamento della giurisprudenza, prevalente fino a un recente passato, sostiene che la violazione del precetto posto dall’art. 1337 c.c. costituisca una forma di responsabilità extracontrattuale, che si riconnette alla violazione della regola di condotta stabilita erga omnes a tutela di un interesse superiore che si collega al corretto svolgimento dell’iter di formazione del contratto e che attesta, se violato, l’esistenza dell’ingiustizia del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c. Detto orientamento afferma che non vi può essere responsabilità contrattuale se un contratto non sia stato ancora concluso. A ciò consegue che, in assenza degli artt. 1337 e 1338 c.c. l’illecita lesione degli altrui interessi troverebbe tutela nel 2043 c.c. Dalla premessa della non equipollenza al contratto del mero contatto sociale precontrattuale si trae allora il corollario secondo cui, gli artt. 1337 e 1338 c.c. vanno intesi come specificazione del principio del neminem laedere. Sul piano disciplinatorio la tesi in esame porta con sé evidenti conseguenze, proprie del modello aquiliano: dalla prescrizione quinquennale, all’ascrizione dell’onere della prova in capo al danneggiato in merito alla colpevolezza ed alla condotta illecita, alla non operatività dei limiti posti al risarcimento dall’art. 1225 c.c., al diverso regime della mora (ex re ai sensi dell’art. 1219, comma 2, c.c.). Del pari, ai sensi dell’art. 2046 c.c., il soggetto incapace di intendere e volere non risponderà. Sarà invece responsabile, ex art. 1426, quando il contratto dell’incapace legale risulti valido per avere egli con raggiri occultato la sua età.

2.2 La tesi della natura contrattuale

Parte della nostra dottrina, subendo l’influsso della scuola tedesca, propende per la natura contrattuale della responsabilità di cui agli artt. 1337-1338 c.c. In particolare, secondo questa tesi, l’instaurazione delle trattative farebbe sorgere tra i soggetti coinvolti un rapporto obbligatorio. È stato autorevolmente sostenuto che, il cui contenuto si tratta appunto di specificare a stregua di una valutazione di buona fede. Tale rapporto obbligatorio non avrebbe però radice nel contratto successivamente concluso, ma la fonte dello stesso dovrebbe rinvenirsi piuttosto nella terza categoria della classificazione gaiana, riprodotta dall’art. 1173 c.c. (altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico). Il fatto cui la legge ricollegherebbe la nascita del rapporto obbligatorio consisterebbe, in particolare, nell’affidamento obiettivo ingenerato in una parte dal contegno altrui, come si ricaverebbe dalla nozione stessa di buona fede in senso oggettivo (Mengoni). L’inquadramento dogmatico della responsabilità precontrattuale in ambito contrattuale reca, inevitabilmente, delle conseguenze sul piano della disciplina applicabile, potendo il danneggiato godere di disposizioni più favorevoli rispetto a quelle dettate per la responsabilità aquiliana: egli, infatti, è favorito, tra l’altro, da una prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) più lunga rispetto a quella quinquennale (art. 2947 c.c.), nonché dall’inversione dell’onere della prova, che favorisce il creditore nella responsabilità da inadempimento. Quest’ultimo, infatti, per ottenere la soddisfazione del proprio credito deve limitarsi a provare il titolo costitutivo del diritto vantato ovvero la fonte legale o negoziale della obbligazione inadempiuta, restando a carico del debitore l’onere di dimostrare di aver esattamente adempiuto alla prestazione.

2.2.1 Nel 2011 la tesi contrattuale fa breccia nella giurisprudenza di legittimità

La ricostruzione in termini contrattuali ha conosciuto nel 2011 le prime applicazioni giurisprudenziali in un paio di sentenze.

In particolare, la Suprema Corte (20 dicembre 2011, n. 27648) ha affermato che con la trattativa s’istituisce tra le parti un rapporto particolare, detto anche da contatto socialmente qualificato, in forza del quale è normativamente imposto un obbligo di comportamento secondo buona fede. Si tratta, pertanto di una “fattispecie ben distinta dalla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., in cui la lesione precede l’instaurazione di un qualsiasi rapporto particolare tra le parti”.

La sussistenza di una diligentia in contrahendo impedisce, quindi, il ricorso alla responsabilità aquiliana, perché nella responsabilità aquiliana la lesione che ha cagionato il danno ingiusto da risarcire precede l’instaurazione di un qualsiasi rapporto particolare tra le parti, mentre la culpa in contrahendo non attiene ad una ipotesi di ingiusta lesione di un diritto ad opera di terzi, ai sensi dell’art. 2043 c.c., avendo invece a fondamento il “contatto” tra le parti anche in vista di un futuro contratto (Cass. civ., sez. I, 21 novembre 2011, n. 24438). La regola giuridica di correttezza e buona fede, prevista come struttura portante del diritto delle obbligazioni e il ragionevole affidamento sorto durante le trattative che dà luogo alla responsabilità precontrattuale, pone alle parti di un rapporto non contrattuale il dovere di comportarsi correttamente. L’inosservanza di tale dovere si sostanzia nell’inadempimento di una precedente obbligazione, il quale rappresenta il tratto caratterizzante della responsabilità, appunto, da inadempimento che, in tal caso, non deriva da contratto, ma che è parimenti regolata dall’art. 1218 c.c. In definitiva, il ragionamento seguito è che dal fatto della trattativa (art. 1337 c.c.), o di aver concluso un contratto invalido (art. 1338 c.c.), deriva l’obbligo di comportarsi secondo buona fede. L’inadempimento di questo obbligo a causa di un recesso ingiustificato, per non aver informato adeguatamente, anche sul punto dell’esistenza di una causa di invalidità (art. 1338 c.c.), costituisce inadempimento al dovere di buona fede e comporta il risarcimento del danno. Da un lato è evidente che per il diritto vivente la disposizione da ultimo citata non disciplina il solo inadempimento delle obbligazioni derivanti da contratto. Infatti, sotto il Titolo I, Capo III, del Libro IV del c.c., la norma ha come rubrica “Dell’inadempimento delle obbligazioni” cioè di tutte le obbligazioni e non solo di quelle derivanti dal contratto. Disciplina quindi l’inadempimento di qualsiasi obbligazione (obligatio est iuris vinculum), indipendentemente dalla fonte, e quindi anche l’inadempimento del dovere di correttezza e buona fede (art. 1175 c.c.), l’inadempimento dell’affidamento da “contatto sociale” (dalla responsabilità precontrattuale a quella del medico, di intermediari, banche, assicurazioni, fino alla P.A.), nonché l’inadempimento dei doveri accessori Nebenpflichten o di quelli di protezione Schutzpflichten, previsti da una legge di protezione (Schutzgesetz).

In particolare, per la Cassazione “la domanda di accertamento della responsabilità precontrattuale è validamente proposta sulla base della rappresentazione di elementi di fatto idonei a dimostrare la lesione della buona fede tenuta dalla parte nel corso della vicenda, e con ciò dell’obbligo sancito dall’art. 1337 c.c.” Il creditore in giudizio deve dimostrare il titolo della responsabilità ed allegare l’inadempimento, secondo l’ormai indiscusso orientamento inaugurato nel 2001 e ribadito anche per le obbligazioni di mezzi nel 2004. Ne deriva che chi ha confidato nella conclusione di un contratto che non si è mai perfezionato, a causa del recesso ingiustificato dalla trattativa da parte della controparte, deve dimostrare la serietà della trattativa e allegare l’inadempimento del recedente, ossia la scorrettezza del suo comportamento (art. 1337 c.c.). Il recedente dovrà, invece, dare la prova che «l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile», secondo l’art. 1218 c.c. Oppure, in via di una prova diretta contraria del fatto costitutivo della domanda giudiziale, dovrà dimostrare: a) che la trattativa non era seria al punto da far nascere il dovere di buona fede, dedotto in obbligazione; b) che il recesso è stato legittimo, ossia ha corrisposto ad un interesse meritevole per il recedente, quindi non è in contrasto con il dovere di buona fede. In altri termini, nel riparto dell’onere della prova fra le parti in lite, la prova dell’osservanza della buona fede finisce per ricadere su chi ha frustrato l’aspettativa dell’altra parte (Franzoni).

Quanto alla mancata allegazione, nel caso di specie, del profilo della colpa, la Corte rileva che da tempo la stessa è “pervenuta a qualificare la responsabilità da contatto sociale in termini di responsabilità contrattuale, nella quale, conseguentemente, il danneggiato deve dimostrare – oltre al danno sofferto – solo la condotta antigiuridica, e non anche la colpa (tra le molte, in particolare, Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, e S.U. 26 giugno 2007, n. 14712). Come si è già osservato, la responsabilità precontrattuale, nella quale v’è certamente un contatto sociale qualificato dallo stesso legislatore, con la previsione specifica di un obbligo di buona fede, presenta tutti gli elementi dell’art. 1173 c.c., sicché deve ritenersi che l’attore, il quale intenda far valere tale responsabilità, abbia l’onere di provare solo l’antigiuridicità del comportamento (la violazione dell’obbligo di buona fede) e il danno”.

La conclusione a cui è pervenuta la Suprema Corte nella sentenza appena esaminata si trova espressa anche in un’altra pronuncia (21 novembre 2011, n. 24438), concernente una domanda risarcitoria avanzata nei confronti della P.A. per aver questa, con comportamenti tenuti nella fase precedente la stipula del contratto, leso l’affidamento ingenerato nel privato in ordine alla regolarità e legittimità dell’aggiudicazione fatta in suo favore. In particolare, tale lesione si era concretizzata nel successivo annullamento ad opera del giudice amministrativo del provvedimento emesso a causa della riscontrata illegittimità della scelta dell’aggiudicatario. Sul punto si precisa che “l’affidamento reciproco dei contraenti nella correttezza dei comportamenti della controparte nella fase preliminare o prodromica del contratto ritenuto valido e efficace da chi ne ha iniziato l’esecuzione, rileva in tutti i contratti, sia privati che ad evidenza pubblica, vincolando le parti future dell’atto a una condotta secondo buona fede”.

Dopo questa premessa, la Corte richiama una precedente sentenza delle S.U. 23 marzo 2011, n. 6596, nella quale le stesse avevano affermato che la domanda autonoma di risarcimento del danno proposta da colui che, avendo ottenuto l’aggiudicazione in una gara successivamente annullata dal Tar perché illegittima su ricorso di altro concorrente, deduca la lesione dell’affidamento ingenerato dal provvedimento di aggiudicazione apparentemente legittimo “rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, non essendo chiesto l’accertamento dell’illegittimità dell’aggiudicazione (che, semmai, la parte aveva interesse a contrastare nel giudizio amministrativo promosso dal concorrente pretermesso) e quindi non rimproverandosi alla P.A. l’esercizio illegittimo di un potere consumato nei confronti di chi agisce, ma solo la colpa di averlo indotto a sostenere spese nel ragionevole convincimento della prosecuzione del rapporto fino alla scadenza prevista nel contratto stipulato a seguito della gara”.

La Corte conclude, quindi, nel senso del riconoscimento in capo alla P.A. che abbia compiuto un’erronea scelta del contraente di un contratto di appalto, successivamente posta nel nulla da parte del giudice amministrativo, di un obbligo avente ad oggetto il “risarcimento dei danni per le perdite e i mancati guadagni subiti dal privato aggiudicatario, in base ad una responsabilità non aquiliana, né contrattuale in senso proprio, ma come quest’ultima da inadempimento, nella specie del dovere di buona fede e correttezza che consegue al “contatto” tra le parti nella fase procedimentale anteriore alla stipula del contratto, avendo la P.A. indetto la gara e dato esecuzione ad un’aggiudicazione apparentemente legittima che ha provocato la lesione del diritto soggettivo del privato, avente ad oggetto l’affidamento incolpevole nella regolarità e legittimità dell’aggiudicazione”.

La pronuncia in esame risulta particolarmente interessante per aver la Corte precisato che tale responsabilità “non può essere contrattuale nel senso proprio del termine, mancando una valida obbligazione da contratto, che nel caso è tamquam non esset e privo di effetti, mentre il dovere delle parti di correttezza esisteva sin dal momento del loro contatto per effetto della partecipazione” del privato alla gara.

Tra committente e appaltatore, secondo quanto si legge in sentenza, vi sarebbe stato un rapporto solo di fatto, per cui la responsabilità di controparte invocata in domanda derivava solo dalla violazione da parte della P.A. del suo obbligo di comportarsi secondo le regole della correttezza e buona fede applicabili già per il “contatto” precedente e preparatorio del negozio, derivato tra le parti per effetto del bando e delle attività successive di gara.

Anche in tale pronuncia è la valorizzazione del contatto giuridico socialmente qualificato che conduce all’esclusione della qualificazione in termini di responsabilità aquiliana della violazione dei doveri di buona fede e correttezza, insito nella lesione del legittimo affidamento ingenerato sulla controparte per effetto di comportamenti tenuti nella fase precedente la stipula del contratto. L’ostacolo rappresentato dalla mancanza di un contratto risulta superato in un’ottica solidaristica nel senso che viene attribuita alla clausola generale della buona fede la funzione di creare un rapporto che, se non può definirsi contrattuale in senso stretto, può qualificarsi in termini di vincolo giuridico in quanto di questo possiede il tratto categoriale costituito dall’esistenza di specifici obblighi comportamentali. La violazione di tali obblighi, pertanto, non ingenera una responsabilità tra soggetti estranei, rappresentando l’epilogo di un rapporto precedentemente instaurato. Risulta, quindi, configurabile, come affermato dalla Suprema Corte nelle citate sentenze, una responsabilità da inadempimento, sub specie di violazione degli obblighi di buona fede e correttezza, la quale trova la sua disciplina negli artt. 1218 e ss c.c., con le conseguenze applicative sopra evidenziate.

Va evidenziato che la valorizzazione del profilo del contatto sociale è alla base anche della recentissima pronuncia delle S.U. 28 aprile 2020, n. 8236, per la quale la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione e il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto amministrativo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione.

2.2.2 La Cassazione (12 luglio 2016, n. 14188) qualifica definitivamente la responsabilità precontrattuale come contrattuale da contatto sociale

In seguito alle enunciate pronunce del 2011, tuttavia, la Suprema Corte, esaminando fattispecie in cui si richiedeva il risarcimento del danno ex artt. 1337-1338 c.c., quasi dimenticando quanto statuito nel 2011, ha nuovamente aderito all’orientamento tradizionale volto a inquadrare la responsabilità precontrattuale nell’ambito del torto aquiliano (Cass. 10 gennaio 2013, n. 477; Cass. 29 luglio 2011, n. 16735).

Sennonché con una decisione del 12 luglio 2016, n. 14188, la Cassazione ha ritenuto di dover rimeditare l’orientamento tradizionale, sostenendo che la responsabilità precontrattuale è assimilabile a quella da contatto sociale qualificato, con la conseguenza che si applica in toto la disciplina propria delle obbligazioni contrattuali. La prescrizione del diritto al risarcimento del danno si compie, dunque, con il decorso del termine ordinario decennale.

La Suprema corte, con la sentenza in esame, pone in evidenza la tendenza giurisprudenziale a un «significativo ampliamento dell’area di applicazione della responsabilità contrattuale», che è frutto di un’evoluzione nel modo di intendere la responsabilità civile nella prospettiva di assicurare, a coloro che instaurano con altri soggetti relazioni significative e rilevanti, perché involgenti i loro beni e interessi, una tutela più incisiva rispetto a quella garantita dalla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.

In particolar modo, si ritengono significative le decisioni nelle quali la Corte ha affermato che il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico di entrambe, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge. Ne discende che la violazione di tale principio “costituisce di per sé inadempimento” e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato a titolo di responsabilità contrattuale.

La responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. – continua la sentenza – resta dunque limitata alle sole ipotesi di lesioni ab extrinseco a beni o interessi altrui, al di fuori di qualsiasi rapporto preesistente che si ponga come fonte di obblighi di vario genere (di prestazione e/o di protezione), tali da radicare una responsabilità di tipo contrattuale.

Vengono dunque analizzate le varie ipotesi in cui la giurisprudenza ha ravvisato l’esistenza di una responsabilità da contatto sociale qualificato che consiste in un rapporto connotato da obblighi già a monte della lesione, ancorché non si tratti di obblighi di prestazione (art. 1174 c.c.), bensì di obblighi di protezione correlati all’obbligo di buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.).

Si tratta della nota impostazione teorica dell’obbligazione senza prestazione, in ragione della quale la responsabilità prevista dagli artt. 1337 e 1338 c.c. deve essere ricondotta all’inadempimento contrattuale (art. 1218 c.c.) e non al principio generale del neminem laedere (art. 2043 c.c.) che origina, invece, a seguito della «violazione di doveri assoluti che sorgono al di fuori di una relazione specifica tra soggetti determinati».

La responsabilità da contatto sociale qualificato trova fondamento, dunque, nell’art. 1173 del codice civile, laddove, come visto, si prevede che fonte di obbligazioni possa essere (oltre al contratto e al fatto illecito) anche «ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico».

Dalla riconduzione di tali ipotesi peculiari di responsabilità nell’alveo di quella contrattuale discende una maggior tutela – sotto alcuni profili – per il danneggiato. Si pensi alle conseguenze in tema di inversione dell’onere della prova a favore del danneggiato ed all’applicabilità, appunto, del termine di prescrizione decennale.

3. La responsabilità precontrattuale per violazione dell’obbligo di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. Il dovere di informazione

La dottrina, seguita solo di recente dalla giurisprudenza, ha subito sottolineato l’innovatività della scelta del legislatore del 1942, sulla scia della dottrina tedesca, evidenziando come la formula generica dell’art. 1337 c.c. miri a reprimere qualunque violazione del canone di buona fede oggettiva costituente limite all’autonomia negoziale. Buona fede che, a sua volta, riportandosi al generale precetto di cui all’art. 1175 c.c., si sostanzia in una serie di regole comportamentali volte a tutelare la libertà negoziale altrui suscettibile di essere messa a repentaglio da trattative superficiali o scorrette.

La giurisprudenza è costante nell’affermare che non è necessario, ai fini della culpa in contrahendo, che sussista un atteggiamento soggettivo di mala fede (ossia la violazione del canone di buona fede soggettiva), determinato dall’intenzione di uno dei contraenti di arrecare un pregiudizio all’altro, essendo sufficiente anche il comportamento non intenzionale o meramente colposo della parte.

La buona fede incorpora quindi anche il precetto di diligenza nel corso delle trattative come chiarito dall’equiparazione che l’art. 1338 c.c. introduce tra conoscenza e conoscibilità delle cause di invalidità.

La portata della clausola generale è tale da colpire non solo le trattative che non approdano ad alcun contratto o che portano ad un contratto invalido o inefficace – ipotesi accomunate dall’essere in definitiva infruttuose – ma, come meglio si vedrà dopo, anche le trattative inquinate da un comportamento scorretto che porti ad un contratto valido ma dannoso per essere stato squilibrato nei suoi contenuti dalla condotta pregiudizievole altrui (di cui si dirà più avanti funditus).

3.1 Le ipotesi di condotte contrarie a buona fede: la violazione degli obblighi di informazione tra clausola generale e leggi speciali

La buona fede, di cui all’art. 1337 c.c., impone innanzitutto obblighi di informazione e di illustrazione dei termini dell’affare.

Nell’individuare la violazione di questo generico obbligo, l’interprete deve comparare gli interessi in conflitto per realizzare un equilibrio tra libertà ed affidamento, operazione che difficilmente può essere sorretta da canoni aprioristicamente formulati, posto che il contenuto dell’obbligo di informazione varia da contratto a contratto.

Il dovere di informazione per essere adeguatamente assolto implica il rispetto del precetto di trasparenza, che, specie alla luce dell’influenza del diritto comunitario dei consumatori, impone la completa intellegibilità degli elementi informativi utili ai fini di una consapevole decisione in ordine all’an ed al contenuto del contratto.

Del dovere di informazione è un precipitato l’obbligo di comunicare le cause di invalidità di cui all’art. 1338 c.c.

La libertà a contrarre viene lesa non solo nel caso in cui l’informazione dovuta (in base ai criteri prima specificati) sia totalmente omessa o risulti incompleta, ma anche a maggior ragione, quando sia fornita una informazione che (dovuta o meno) sia falsa o inesatta, che abbia indotto a concludere un contratto che altrimenti non si sarebbe concluso (o che si sarebbe concluso con un diverso tenore), ovvero, ove si sia dissuasi dal concludere un contratto che si stava per concludere. Giova precisare che gli artt. 1337 e 1338 c.c. operano su un piano diverso rispetto al 1439 c.c. (dolo), atteso che quest’ultima è posta a tutela del paciscente che dall’inganno è stato indotto a contrarre, mentre le prime due norme sono poste anche a presidio di chi sia stato portato a desistere dal contratto per effetto della cattiva informazione.

Il dovere di informazione sugli elementi rilevanti ai fini della stipulazione, nel caso di contratti tra soggetti che si trovino in una condizione di pari forza contrattuale, non va spinto fino al punto di colmare le altrui negligenze. Ne deriva che nessun obbligo scatta con riferimento a notizie che la controparte avrebbe potuto acquisire tenendo un comportamento diligente (vedi ad es. le notizie sulle quotazioni di mercato di un bene). Tanto meno, vi è un obbligo di informazione con riguardo a notizie concernenti le proprie motivazioni a contrarre (vedi lo stato di bisogno), specie se da tale ostensione possa derivare una minorazione della propria forza contrattuale.

A diversa conclusione si può arrivare se il tipo di contratto renda necessaria una conoscenza della controparte in ordine agli altrui rischi di insolvenza (vedi i contratti di finanziamento e assicurativi) e, più in generale, laddove sia richiesta la leale comunicazione delle condizioni economiche o personali, la cui conoscenza sia necessaria per soppesare i rischi dell’operazione.

All’opposto, il principio di trasparenza viene in rilievo ove le notizie afferiscano a oggetti (vedi le caratteristiche o i vizi del bene venduto) non acquisibili dalla controparte in quanto nella sfera di dominio di una sola parte.

Ancora, l’obbligo di informazione acquisisce uno spessore specifico quante volte le parti versino in condizioni asimmetriche, in relazione all’altrui condizione di vizio (completo o incompleto) della volontà, di inesperienza, di immaturità, di minorata capacità, di soggezione, di età o di bisogno. In tali casi, anche se non si concretizza una causa di invalidità del contratto (si pensi al dolo incidente, all’errore non essenziale, alla minorazione che non implichi incapacità ex art. 428 c.c., all’inesperienza negli affari, al bisogno economico che non porti ad una stipula con lesione ultra dimidium), la migliore dottrina, sull’esempio comunitario e comparato, ascrive in capo alla parte forte, che sia o possa essere a conoscenza dell’altrui condizione di soggezione, l’obbligo di colmare il divario di forze, ossia l’asimmetria di partenza, fornendo le necessarie informazioni non facilmente acquisibili dalla controparte in condizione di disparità. E tanto, a pena di risarcimento del danno precontrattuale, in caso di stipula squilibrata o sconveniente.

Il contenuto del generico obbligo di informazione, per contrattazioni asimmetriche, è stato specificato in recenti leggi speciali in materia di tutela del consumatore, di negoziazione di servizi bancari, di negoziazioni porta a porta, di contratti di assicurazione e di norme in materia di offerta al pubblico di valori mobiliari.

Da ultimo il codice del consumo, varato con il D.Lgs. 206/2005, agli artt. 2 e 5, prevede uno specifico diritto all’informazione avente ad oggetto tutte le attività che, ancora prima della fase precontrattuale, siano idonee a porre il consumatore in grado di ottenere una corretta conoscenza del bene da acquistare. Così facendo il legislatore ha spostato “la tutela consumeristica da un piano che potremmo definire riparatorio ad una tutela preventiva di carattere diffuso ed anticipato”, di carattere individuale e successivo.

La disciplina dettata individua, dunque, un vero diritto all’informazione del consumatore, il cui contenuto è puntualmente descritto dal legislatore allo scopo di colmare quella asimmetria di posizione che esiste tra professionista e consumatore.

Ancora più pregnante e specifico è l’obbligo di informare in ordine ai contratti conclusi a distanza, ove si annida un maggior rischio per il consumatore di dare il consenso senza la possibilità di valutare adeguatamente le implicazioni dell’affare prospettato (art. 52, D.Lgs. 206/2005).

Detti interventi legislativi tendono a formare un diritto speciale che si applica in rapporti standardizzati connotati da una forte asimmetria informativa, “che non permette all’esplicarsi dell’autonomia privata di assecondare la propria vocazione efficentistica.

Cominciando un’analisi, non esaustiva, degli obblighi di informazione rafforzati in relazione alla professionalità di una delle parti e alla sudditanza della controparte, completa e dettagliata deve essere l’informazione fornita dal medico al momento in cui conclude il contratto avente ad oggetto l’esecuzione di un’operazione chirurgica.

Nell’ambito della intermediazione finanziaria, un ruolo centrale è svolto dall’intermediario, il quale nel rapporto diretto con il cliente è tenuto a particolari doveri informativi e comportamentali, specificati agli artt. 21 e ss. del T.U. 58/1998 e dagli artt. 23 e ss. del regolamento CONSOB, che “costituiscono un reticolo idoneo a conferire all’attività di intermediazione finanziaria natura e consistenza di rapporto complesso”.

3.2 Il recesso ingiustificato dalle trattative

Il maggior numero delle decisioni rese in tema di responsabilità precontrattuale, legate alla clausola di buona fede ex art. 1337 c.c., concerne il recesso dalle trattative.

Si ha recesso ingiustificato ove ricorrano i seguenti requisiti:

a)  affidamento di uno dei contraenti nella conclusione del contratto in fieri;

b)  interruzione delle trattative senza giustificato motivo, quando queste siano arrivate ad uno stadio sufficientemente maturo da istillare l’affidamento nello sbocco positivo;

c)  non sussistano fatti idonei a escludere il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto;

d) si produca correlativo danno della controparte.

Questa elaborazione nasce dal difficile contemperamento di due opposte istanze: da un lato, le parti nella fase antecedente la conclusione di un contratto, conservano in ogni tempo, piena facoltà di recedere dalle trattative senza dovere addurre un giustificato motivo se non intendono più concludere un affare; dall’altro l’affidamento ragionevole, che si è creato in un contraente circa la positiva conclusione del futuro contratto che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela.

Questa difficile sintesi è raggiunta con il principio, in base al quale, se per un verso, nella fase antecedente alla conclusione di un contratto, le parti hanno (in ogni tempo) piena facoltà di verificare la propria convenienza alla stipulazione e di richiedere tutto quanto ritengano opportuno in relazione al contenuto delle reciproche, future obbligazioni, con conseguente libertà, per ciascuna di esse, di recedere dalle trattative; dall’altro lato detta libertà incontra un limite nel rispetto del principio di buona fede e correttezza, da intendersi, tra l’altro, come dovere di informazione della controparte circa la reale possibilità di conclusione del contratto, senza omettere circostanze significative rispetto all’economia del contratto medesimo.

Il recesso è legittimo ove si fondi su una giusta causa, ossia una ragione che abbia comportato, in capo alla parte che recede, la rivalutazione degli elementi precedentemente considerati senza porre in essere un comportamento sleale nei confronti dell’altra parte.

4. L’art. 1338 c.c.: violazione del dovere di comunicare le cause di invalidità

L’art. 1338 c.c. costituisce una specificazione del genus di condotte sanzionate dall’art. 1337 c.c. sul piano della violazione del canone di buona fede, stigmatizzando l’omessa informazione circa le cause di invalidità o inefficacia.

Per la sussistenza della responsabilità di cui al 1338 c.c., l’indagine va concentrata sulla nozione di “cause di invalidità del contratto” e sull’inciso “senza colpa”.

Circa il primo punto, la dottrina prevalente, contrastata dalla giurisprudenza, opta per una nozione ampia, comprensiva, oltre che della nullità (anche parziale), dell’annullabilità e della rescindibilità, nonché, stante la chiara identità di ratio, anche dell’inefficacia del contratto (si veda, a conferma, l’art. 1398 c.c. che prevede la responsabilità del c.d. falsus procurator per i danni cagionati dal contratto inefficace al terzo in buona fede).

Per quanto attiene il secondo requisito, cioè “l’assenza di colpa” del danneggiato, si rileva che il danno non è risarcibile ove la causa di invalidità sia conosciuta o conoscibile dalla controparte. La stigmatizzazione sul piano del dolo e della colpa impedisce infatti di qualificare come incolpevole l’affidamento leso.

Così, si è affermato che, ove l’invalidità del contratto derivi da una norma di legge non sia configurabile una ignoranza incolpevole, poiché il deceptus adottando l’ordinaria diligenza sarebbe agevolmente venuto a conoscenza della norma di legge e quindi della causa di invalidità del contratto.

Il rigore giurisprudenziale sulla necessaria assenza di colpa a carico del soggetto leso, pur trovando un addentellato nei lavori preparatori, ha condannato l’art. 1338 c.c. a una sostanziale marginalizzazione operativa. E tanto sulla scorta di una soluzione che, specialmente laddove compensa il dolo del danneggiante e la mera colpa (anche lieve) del danneggiato porta a un risultato equitativamente non accettabile e non in sintonia con la clausola di ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. E tanto specie se si considera il caso dei contratti asimmetrici, nel quale il diverso grado della colpa del contraente professionista giustificherebbe una soluzione volta a concedere la tutela alla controparte versante in condizioni di maggiore vulnerabilità.

5. L’art. 1440 c.c. in tema di dolo incidente quale ipotesi di responsabilità precontrattuale: si affaccia il modello della responsabilità precontrattuale da contratto valido ma dannoso

L’art. 1440 c.c., nella parte in cui considera valido il contratto affetto da dolo incidente obbligando al risarcimento del relativo danno, costituisce applicazione del modello della responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c.

La condotta data dal tenere artifici e raggiri che incidano sul contenuto anche se non sull’an del contratto, ossia che implica un vizio incompleto della volontà, è infatti, al pari della condotta che produce vizi della volontà completi (violenza, dolo, istigazione all’errore), una condotta precontrattualmente scorretta che genera responsabilità precontrattuale.

La norma fissa due principi di grande interesse recepiti nel 2007 dalle Sezioni Unite (19 dicembre 2007, n. 26724 e 26725): la responsabilità precontrattuale non tocca solo le trattative infruttuose (non sfociate in un contratto valido o efficace) ma anche quelle fruttuose ma dannose, sfociate cioè in un contratto valido ma sconveniente.

In secondo luogo, e correlativamente, il risarcimento del danno, trattandosi non di trattativa infruttuosa ma dannosa, non può che concernere l’interesse positivo differenziale, legato cioè alla comparazione tra gli effetti del contratto stipulato e il vantaggio che sarebbe derivato dall’esecuzione del contratto ove il suo contenuto non fosse stato in modo deleterio influenzato dal comportamento abusivo.

Il risarcimento va cioè commisurato alle migliori condizioni economiche che la vittima avrebbe ottenuto se la controparte avesse agito lealmente. Rilevano sia il danno emergente (parte del prezzo pagata in più rispetto a quello di mercato) sia il lucro cessante (ad es. mancato guadagno non percepito a causa del fatto che il bene acquistato valga meno del prezzo corrisposto) purché ne venga fornita la prova dell’esistenza e del nesso eziologico.

In tema di actio doli, dunque, il risarcimento dei danni subiti dal deceptus non è indissolubilmente legato all’interesse negativo, potendo esservi ipotesi in cui la pretesa risarcitoria, a causa del tipo di illecito perpetrato, per riequilibrare integralmente gli interessi e l’assetto negoziale, deve comprendere tutti i danni prodotti, e quindi andare a coprire se del caso ed in quanto provato, l’interesse positivo comprensivo tanto del danno emergente quanto del lucro cessante” (A. Sagna).

5.1 Estensione della regola del dolo incidente ai c.d. vizi incompleti della volontà

Secondo la lettura tradizionale degli interpreti però l’art. 1440 c.c. costituisce norma eccezionale e come tale non applicabile in via analogica ad altre fattispecie in virtù del divieto posto dall’art. 14 disp. prel. c.c. In questa pronuncia non può però non vedersi un primo segnale della giurisprudenza volto a spezzare il legame tra responsabilità precontrattuale e risarcibilità del solo interesse negativo.

Secondo la più moderna lettura, invece, l’art. 1440 c.c. è espressione di una regola di portata generale contenuta nella clausola generale dell’art. 1337 c.c., che, non a caso, non lega la tutela risarcitoria in caso di condotta precontrattualmente scorretta al dato necessario della mancata stipulazione del contratto valido ed efficace.

L’art. 1337 c.c. può allora per certo essere invocato per i cosiddetti vizi incompleti della volontà.

Si pensi al caso del contratto concluso, frutto di violenza, che non integri gli estremi di una causa di annullamento, ma sia idoneo a concretare una lesione della libertà negoziale. Se infatti la violenza non è idonea a decretare l’annullamento del contratto, essa, in analogia con l’ipotesi del dolo incidente, comporterà il risarcimento del danno precontrattuale sulla base della scissione tra regole di validità dell’art. 1338 c.c. (nella specie non violate) e regola di illiceità del comportamento (trasgredita per effetto della condotta contraria a buona fede).

Anche l’errore, quando non è tale da annullare il contratto, mancando dei requisiti previsti dal 1427 c.c., ma è idoneo a incidere sul contenuto del contratto, rileva in termini di culpa in contrahendo.

Stesso discorso è a farsi per l’errore conosciuto o provocato, non avente i requisiti (vedi l’essenzialità) per giustificare l’annullamento (art. 1428 c.c).

Analogo discorso vale per lo stato di bisogno ex art. 1448 c.c. ove la lesione non sia ultra dimidium.

5.2 Verso la responsabilità precontrattuale in presenza di un contratto valido ed efficace

Al di là dei vizi incompleti, sembra evidente che va considerata superata l’impostazione per la quale la conclusione del contratto (valido ed efficace) segnerebbe lo spartiacque al di là del quale non può essere più fatta valere la responsabilità precontrattuale, tranne che non sussistano gli estremi del dolo incidente ex art. 1440 c.c.

Detta tesi è argomentata dal rilievo che, a partire dal momento della conclusione, trovano applicazione le norme relative alla invalidità e inefficacia (artt. 1434-1437-1439-1447-1448 c.c.). Esula, quindi, dai limiti dell’art. 1337 c.c., secondo questo orientamento, il danno da conclusione di un negozio a condizioni diverse rispetto a quelle che si sarebbero avute ove il comportamento tenuto fosse stato conforme al canone della buona fede.

La dottrina maggioritaria (Monateri) opina ormai diversamente e, influenzata dai principi comunitari in tema di tutela del contraente debole, prende atto che l’art. 1337 c.c. riconosce una generale tutela al soggetto negativamente influenzato da un vizio incompleto generato dal comportamento altrui di approfittamento di una condizione di debolezza o ignoranza, tale, da incidere sul contenuto del contratto, senza invalidarlo.

Come per l’ipotesi del dolo incidente anche in queste fattispecie i danni risarcibili sono sia quelli derivanti dalle diverse e migliori condizioni, sia tutte quelle conseguenze dannose immediatamente ed eziologicamente riconducibili a tale evento doloso, in quanto rigorosamente provate.

Anche la giurisprudenza si è attestata lungo questa linea interpretativa, riconoscendo la responsabilità precontrattuale nonostante la conclusione del contratto, con la sent. 19024/2005 della Prima Sezione della Suprema Corte, e, in seguito, con le pronunce “gemelle” n. 26724 e 26725/2007 delle Sezioni Unite. In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha abbandonato l’equiparazione tra culpa in contrahendo e l’id quod interest contractus initium non fuisse, affermando che “la responsabilità per violazione del dovere di buona fede durante le trattative o di più specifici obblighi precontrattuali (ad esempio informativi) riconducibili a quel dovere, non è limitata ai casi in cui alla trattativa non segua la conclusione del contratto o segua la conclusione di un contratto invalido o inefficace; bensì si estende ai casi in cui la trattativa abbia per esito la conclusione di un contratto valido ed efficace, ma pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto”.

Il danneggiato deve provare che l’omessa informazione ovvero l’abuso della sua condizione di debolezza ha cagionato un danno, e prima ancora che si è posta in essere un’operazione che, ove vi fosse stata corretta informazione, non sarebbe stata posta in essere.

La Cassazione fa allora assurgere a regola generale l’art. 1440 c.c., sostenendo la responsabilità precontrattuale, anche a fronte di un contratto valido, da trattativa scorretta ma non infruttuosa in armonia con il dato letterale dell’art. 1337 c.c. che non chiede la infruttuosità della trattativa ma soltanto che vi sia stata violazione delle regole di buona fede. E ciò in armonia, anche con la ratio della disciplina di protezione che tutela il consumatore dagli effetti dannosi della violazione indipendentemente o no dalla sussistenza di una clausola di nullità.

Si evidenzia allora la possibilità che la responsabilità precontrattuale dialoghi con un contratto valido ma sconveniente.

La soluzione, coerente con il principio comunitario di stabilità dei rapporti giuridici che guarda con favore a soluzioni di riequilibrio economico che non incidano sulla stabilità del contratto, è estensibile per identità di ratio al caso in cui l’interessato, pur a fronte di una causa di invalidità (si pensi ad un vizio completo della volontà) preferisca non farla valere come tale ma azionare il rimedio risarcitorio teso a stigmatizzare la violazione della diversa regola comportamentale di buona fede.

6. Il danno risarcibile: il limite dell’interesse negativo

La regola imperante nella valutazione dei danni subiti a causa della violazione dei doveri di buona fede precontrattuale è sempre stata quella dell’id quod interest contractus initium non fuisse, cioè del risarcimento del c.d. interesse negativo.

È quindi jus receptum l’affermazione secondo cui, in materia di responsabilità precontrattuale, il pregiudizio risarcibile è circoscritto nei limiti dello stretto interesse negativo (contrapposto all’interesse all’adempimento), rappresentato sia dalle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative in vista della conclusione del contratto (danno emergente), sia (lucro cessante) dalla perdita di ulteriori occasioni per la stipulazione con altri di un contratto altrettanto o maggiormente vantaggioso.

Il risarcimento, dunque, non comprende il lucro cessante legato all’esecuzione del contratto non stipulato, che postula il presupposto dell’esistenza di un efficace contratto inadempiuto.

Si aggiunge, sul piano probatorio, che la perdita dei guadagni che sarebbero conseguiti da altre occasioni contrattuali deve essere sorretta da adeguate deduzioni probatorie della parte che si assume danneggiata, e non possono basarsi sulla semplice considerazione della sua qualità imprenditoriale, né può senz’altro farsi luogo alla liquidazione equitativa da parte del giudice, ai sensi dell’art. 1226 c.c., subordinata, anche nella materia della responsabilità precontrattuale, all’impossibilità o alla rilevante difficoltà, in concreto, dell’esatta quantificazione di un pregiudizio comunque certo nella sua esistenza (Cass., sez. I, 13 ottobre 2005, n. 19883. Conf. Cass., sez. III, 10 giugno 2005, n 12313).

6.1 Il danno risarcibile in caso di responsabilità precontrattuale da contratto valido ma dannoso

A diverse conclusioni, invece, deve pervenirsi con riferimento alla responsabilità precontrattuale legata ad un contratto valido ma dannoso.

La Corte di Cassazione, seguendo la giurisprudenza maturata sul dolo incidente, sostiene infatti che “in caso di responsabilità precontrattuale relativa alla conclusione di un contratto valido ed efficace ma sconveniente, il risarcimento del danno pur non potendosi commisurare al pregiudizio derivante dalla mancata conclusione del contratto neppure può coincidere con la tradizionale figura del c.d. interesse negativo commisurato alle spese vanamente sostenute e alle occasioni alternative mancate a causa della trattativa poi risultata inutile, bensì deve ragguagliarsi al minor vantaggio o al maggior aggravio economico subito dalla vittima per il comportamento sleale della controparte, salva la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto” (Cass., sez. I, 19024/2005).

La Cassazione propone il criterio di risarcimento ragguagliato al minor vantaggio o al maggior aggravio economico determinato dal contegno sleale di una delle parti. Viene in definitiva in rilievo una valutazione virtuale del vantaggio che il soggetto avrebbe conseguito dall’esecuzione del contratto in assenza del fattore deviante, ossia una sorta di interesse positivo legato non all’esecuzione del contratto storicamente stipulato ma all’esecuzione del contratto mai stipulato che si sarebbe avuto se non ci fosse stato il fattore deviante.

Parte della dottrina (Roppo e Afferni) ha apprezzato l’apertura voluta dalla Corte di Cassazione in tema di valutazione del danno nella responsabilità precontrattuale da contratto iniquo ma valido. In tali ipotesi il criterio di calcolo dell’interesse negativo, normalmente utilizzato, la cui ratio è quella di porre il soggetto leso nella posizione in cui si sarebbe trovato se non avesse iniziato la trattativa, è infatti considerato inutile.

7. Osservazioni critiche

Come visto la responsabilità precontrattuale ha conosciuto importanti riletture giurisprudenziali negli ultimi anni, sul piano della natura giuridica e dell’ambito di applicazione.

Intorno a queste svolte, tuttavia, non si riscontra un’unanimità di vedute.

7.1 La natura contrattuale della responsabilità non convince parte della dottrina

In merito all’affermata natura contrattuale della responsabilità de qua, si è rilevato (Pirruccio) come tale ricostruzione trascuri il dato normativo letterale per dare prevalenza a quello finalistico: garantire una tutela più incisiva ed efficace rispetto a quella offerta dalla responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. Infatti, se requisito fondamentale di ogni contratto è l’accordo delle parti (art. 1325, n. 1, c.c.), risulta davvero difficile comprendere come possano sorgere forme di responsabilità assimilate, in tutto e per tutto, a quella contrattuale pur in mancanza di qualsivoglia accordo.

L’equivoco di fondo – prosegue la richiamata dottrina – sta nell’aver fatto assurgere al rango di vera e propria obbligazione (il cui inadempimento darebbe luogo a responsabilità ex art. 1218 c.c.) ciò che, invece, costituisce un mero obbligo (o dovere) giuridico. Ci si riferisce all’obbligo di comportarsi secondo buona fede nelle trattative contrattuali previsto dall’art. 1337 c.c. Non si tratta, invero, di un’obbligazione in senso tecnico, ma di un precetto, proveniente dallo stesso legislatore (che ha ritenuto opportuno formulare espressamente) e rivolto a tutte le parti coinvolte nelle trattative precontrattuali.

Sul punto, in senso opposto, appare opportuno richiamare il pensiero di autorevole dottrina (V. Carbone) secondo cui l’ordinamento giuridico ha, invece, imposto, attraverso l’art. 1337 c.c., un’obbligazione ex lege alle parti che stanno valutando la convenienza o meno di stipulare un rapporto contrattuale, di comportarsi “secondo buona fede”. Appare evidente che l’ordinamento – prosegue l’autore –, volendo valorizzare i comportamenti di correttezza e di buona fede, sia durante le trattative, sia nella fase esecutiva del rapporto contrattuale ha introdotto espressamente delle specifiche obbligazioni ex lege, consentite dalla triplicità delle fonti, del tutto diverse dal contratto e dal fatto illecito. Il dovere di buona fede non è dunque espressione del generale principio del neminem laedere ma rappresenta una obbligazione ex lege nascente dal contatto sociale che si instaura tra le parti nel momento dello svolgimento delle trattative ed il cui inadempimento è fonte di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c (Cicero). Secondo autorevolissima dottrina (Mengoni), infatti, «quando una norma giuridica assoggetta lo svolgimento di una relazione sociale all’imperativo della buona fede, ciò è indice sicuro che quella relazione si è trasformata, sul piano giuridico, in un rapporto obbligatorio, il cui contenuto si tratta appunto di specificare a stregua di buona fede».

La dottrina critica della tesi contrattuale in analisi ha altresì obiettato come non si comprenda per quale ragione dovrebbe meritare una tutela più incisiva chi, come nel caso di specie, abbia sottoscritto un contratto, poi non approvato, beneficiando della più favorevoli previsioni previste in caso di responsabilità contrattuale, rispetto a chi, invece, viene investito da un’automobile con la conseguente applicazione dei più ristretti termini di prescrizione e del più difficoltoso onere probatorio previsti per la responsabilità aquiliana. Ed eppure i beni pregiudicati nelle vicende della circolazione stradale (la salute o la stessa vita umana) sono certamente di rango superiore rispetto all’interesse meramente patrimoniale leso nella vicenda in esame.

Ma anche il medico dipendente della struttura sanitaria ignora, allo stesso modo, l’identità del potenziale paziente che potrebbe giungere in ospedale per le necessarie cure mediche, spesso urgenti, conseguenti al sinistro verificatosi per la strada.

In realtà tali obiezioni non appaiono dirimenti.

In primo luogo, va precisato che, indipendentemente da un legame contrattuale con il paziente, i contenuti della prestazione sanitaria cui è chiamato sono identici e ciò sia che offra le cure in una struttura di cui è dipendente, sia che le offra privatamente.

Senza contare che analoga ignoranza dell’identità del potenziale paziente potrebbe avere ove quest’ultimo si fosse recato presso il suo studio privato.

In senso esattamente opposto al percorso seguito dalla giurisprudenza di legittimità – si rileva ancora (Pirruccio) – negli ultimi anni pare porsi persino il legislatore che, come è noto, con l’art. 3 del D.L. 158/2012, prima, e con l’art. 7 della legge Gelli-Bianco, poi, ha espressamente richiamato l’art. 2043 c.c. in ordine all’obbligo risarcitorio in merito alla qualificazione della responsabilità medica.

Non si ritiene altresì persuasivo, ancora, (anzi, sembra deporre in senso opposto) il richiamo alla sentenza della Corte di giustizia del 17 giugno 1992 (procedimento C26-1991, Jakob Handte & Cie GmbH). In quella decisione si è infatti valorizzata, ai fini della definizione della «materia contrattuale», la necessità della presenza di un «obbligo liberamente assunto» da una parte nei confronti dell’altra, constatando che non esiste alcun vincolo contrattuale tra il subacquirente di una merce (acquistata presso un venditore intermedio) e il produttore, in quanto quest’ultimo non ha mai assunto alcun obbligo contrattuale nei confronti del subacquirente stesso.

Infine − si opina – non necessariamente la responsabilità contrattuale è più favorevole per il danneggiato. Lo è certamente sotto il profilo della disciplina dell’onere della prova e della prescrizione, ma non sotto quello dell’entità del danno risarcibile: l’art. 1225 c.c. limita, infatti, il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel momento in cui è sorta l’obbligazione (salvo che si tratti di inadempimento dipendente da dolo del debitore). Il limite della prevedibilità del danno non si applica, invece, all’illecito extracontrattuale.

Secondo altri (L. Vedovato), ancora, la soluzione della natura aquiliana dell’art. 1337 c.c. appare preferibile. E tanto sia in considerazione dell’intrinseca fragilità della tesi del contatto sociale, che postula un’espansione indiscriminata dell’area della responsabilità contrattuale e una speculare, non convincente, marginalizzazione del torto aquiliano; sia, perché la tesi aquiliana sembra meglio conciliarsi con ragioni di ordine economico e sociale. La moderna dinamica dei mercati, infatti, conferma che il dovere di buona fede non nasce con l’istaurarsi delle trattative, come sostiene la tesi contrattualistica, ma preesiste alle stesse, rappresentando un interesse superindividuale diretto a regolare, in base ad un criterio di etica sociale, un rapporto intersoggettivo non ancora vincolante secondo lo schema del rapporto giuridico.

Diversamente opinando si lascerebbero fuori dalla tutela dell’art. 1337 c.c. tutta una serie di ipotesi che si inseriscono nella fase che precede la conclusione del contratto ma che non sono trattative, come il caso in cui un soggetto ponga un comportamento che non è diretto alla conclusione di un contratto ma è violativo delle regole della concorrenza leale; dell’imprenditore che istaura una trattativa emulativa o per carpire nella trattativa il segreto commerciale o industriale, o che si inserisca nella fase della trattativa mediante l’indicazione di informazioni false.

Sia nel caso di abuso di trattativa sia in quello di ingerenza del terzo, siamo di fronte a comportamenti che si inseriscono in una fase prenegoziale. Tuttavia, tra le parti non si istaura nessun legittimo affidamento contrattualmente orientato, pur se tali comportamenti violano la regola generale del neminem laedere e non possono che inquadrarsi nel 2043 c.c.

Nei Paesi di common law è previsto uno specifico rimedio extracontrattuale a favore di colui che abbia riportato una perdita economica in conseguenza di un contratto o di un affare che stava per essere concluso, contro il terzo cui tale perdita sia imputabile per il fatto di avere concluso un contratto o un affare incompatibile è il tort of interference with contract and business relations.

Secondo la giurisprudenza comunitaria l’obbligo di risarcire il danno, derivante dalla rottura ingiustificata delle trattative, discende solo dalla violazione di norme giuridiche, in particolare dalla norma che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative, pertanto, detto obbligo va inquadrato tra le ipotesi di delitti o quasi delitti e non nell’ambito della responsabilità contrattuale.

7.2 Le critiche alla teoria della responsabilità precontrattuale da contratto valido

Non sono mancate critiche anche alla recente ricostruzione della responsabilità precontrattuale anche in caso di contratto concluso, ma sconveniente.

Innanzitutto, si evidenzia (D’Amico) che le ipotesi che la giurisprudenza riconduce nell’ambito di tale tipologia di responsabilità, nella maggior parte dei casi potrebbero astrattamente essere ricondotte a fattispecie o di contratti (in realtà) invalidi (e, in particolare, annullabili per dolo), o di contratti la cui vicenda è riconducibile allo schema dell’art. 1440 c.c., o, ancora, di fattispecie che possono essere plausibilmente considerate come fattispecie di responsabilità extracontrattuale. E l’elenco di possibili rimedi (ovviamente da rapportare alle concrete fattispecie che potrebbero immaginarsi e che potranno in futuro effettivamente presentarsi) potrebbe, naturalmente, vasto, sol che si pensi che una vasta porzione della “casistica” è (già) coperta da specifiche previsioni di legge (quale è – ad es. – la previsione della responsabilità del venditore per aver taciuto al compratore i “vizi” della cosa: art. 1494, comma 1, c.c.).

Tutto ciò per evidenziare che non esiste probabilmente nemmeno quel «vuoto di tutela» (c.d. lacuna “ideologica”) che può giustificare – quanto meno in base ad una iniziale suggestione – la ricerca di soluzioni che “arricchiscano” (allargandola) la tutela del contraente.

Nei casi veramente rilevanti – secondo questa dottrina – questa tutela già esiste, o, comunque, può essere opportunamente ricostruita senza la necessità di ricorrere alla ambigua costruzione di una «responsabilità da contratto valido (ma sconveniente)», che si espone a diverse obiezioni e prospetta non pochi inconvenienti.

La prima obiezione è che si apre la strada a una responsabilità senza fattispecie: abbandonato l’aggancio ai requisiti di rilevanza dei vizi del consenso, diventa difficile sia stabilire quali comportamenti meritino effettivamente di essere censurati (sia pure solo a fini risarcitori) sia determinare il “grado” (o intensità) di alterazione della libertà di volere della controparte che giustifichi l’intervento sanzionatorio.

Inoltre, ammettere una «responsabilità da contratto valido» viola il principio di coerenza, anzitutto perché è singolare che da una fattispecie ritenuta (valida e) idonea a produrre effetti tutelati dall’ordinamento si faccia al contempo discendere la conseguenza della responsabilità (e del connesso risarcimento del danno): accordando al contraente il potere di far valere (come «danno») il «minor vantaggio» o il «maggiore aggravio» che discendono dall’aver accettato condizioni contrattuali diverse da quelle che sarebbero state accettate in assenza della scorrettezza di controparte, equivale ad affermare, da un lato, che la “prestazione” (in ipotesi più onerosa) o la controprestazione (in ipotesi meno remunerativa) devono essere eseguite così come pattuito in contratto, e ad ammettere, dall’altro, che il contraente possa chiedere la “correzione” di quello “squilibrio patrimoniale” (una sorta di ripetizione parziale della propria prestazione o di pretesa alla integrazione della prestazione altrui) attraverso la domanda di risarcimento del danno.

Ma, al di là di questa osservazione, ammettere quale fattispecie risarcitoria l’ipotesi di un c.d. «vizio incompleto» (beninteso: fuori e/o al di là dei casi espressamente previsti dalla legge, come quello di cui all’art. 1440 c.c.) significa accettare una conseguenza che contrasta con principi fondamentali del nostro diritto dei contratti, come il principio di irrilevanza dell’errore sui motivi (irrilevanza – si badi bene – che non può valere soltanto ai fini del giudizio di validità, ma copre anche il giudizio di responsabilità, perché in entrambi i casi si pongono le medesime esigenze che stanno alla base del principio). Infine riconoscere una «responsabilità da contratto valido» si risolve inevitabilmente in una “correzione” del contenuto economico del contratto – correzione che può incidere anche sensibilmente sull’equilibrio raggiunto dalle parti a questo proposito – che collide anche con un altro carattere fondamentale del nostro diritto dei contratti, vale a dire la esclusione (salvo casi eccezionali) di un potere giudiziale di correzione del contenuto economico dei contratti (come visto nell’argomento n. 1), potere che invece finirebbe per conseguire all’ammissione in via generale della possibilità per una parte di far valere (in via risarcitoria) scorrettezze (vere o presunte) della controparte nella fase di formazione del contratto.

*ARTICOLO di Danilo Dimatteo – estratto da Obiettivo Magistrato n. 62/Marzo 2023 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica