Dike giuridica, Istituti e sentenze commentate

La colpevolezza*

Principio di civiltà giuridica e pilastro dei moderni sistemi di diritto penale, la colpevolezza delimita lo spazio dell’illecito penale, consentendo la punizione dei soli fatti riconducibili psicologicamente al soggetto agente.

Per aversi reato non basta cioè porre in essere un fatto materiale offensivo, ma occorre anche che questo appartenga psicologicamente al suo autore.

La colpevolezza rappresenta pertanto il momento conclusivo dell’illecito penale: verificata la sussistenza del fatto tipico in tutti i suoi elementi, bisognerà accertare se lo stesso possa essere personalmente attribuito all’agente, ovvero se la condotta da questo realizzata rientri entro la sfera delle sue possibilità di signoria e controllo.

Oltre a costituire il fondamento ed il limite della potestà punitiva, la colpevolezza si atteggia anche quale canone di graduazione della pena consentendo, pertanto, di determinare la misura della sanzione da applicare in concreto in relazione, oltre che alla gravità dell’offesa al bene giuridico protetto, al disvalore della condotta e quindi alla maggiore o minore riprovevolezza dell’atteggiamento psichico del reo rispetto all’evento.

È opportuno precisare come in un diritto penale ispirato ai principi oggettivi di materialità e offensività, la colpevolezza può solo significare colpevolezza per il fatto e non per il modo di essere del soggetto (c.d. colpa d’autore).

La colpevolezza: concezione psicologica e normativa

Discussa è la natura della colpevolezza, contendendosi da sempre il campo, in materia, due distinte concezioni, quella psicologica e quella normativa.

Secondo la concezione psicologica la colpevolezza consiste e si esaurisce nel nesso psichico tra l’agente ed il fatto, da identificarsi in un atteggiamento del volere, che si manifesta nelle forme del dolo o della colpa: il fatto è colpevole quando l’autore lo ha previsto e voluto (dolo), oppure quando, pur non avendolo voluto, lo avrebbe potuto prevedere e quindi evitare utilizzando la normale diligenza o prudenza (colpa).

Secondo invece la concezione normativa, accolta dalla dottrina prevalente, la colpevolezza non consiste in un semplice processo psicologico, ma si identifica in un giudizio di rimproverabilità per l’atteggiamento antidoveroso della volontà, sia essa effettiva (dolo), sia essa potenziale (colpa), rispetto alla norma giuridica. Nello specifico, mentre nel caso del dolo al soggetto agente sarà rimproverato di avere voluto un fatto che non si doveva volere, nella colpa di non avere preveduto e quindi evitato un fatto che non si doveva realizzare.

La teoria normativa offre quindi un concetto graduabile di colpevolezza, che si modella sulla maggiore o minore antidoverosità della volontà del soggetto agente, con ciò consentendo una individualizzazione del relativo giudizio anche alla luce dei processi interni, motivazionali del reo.

Se si identifica la colpevolezza con la rimproverabilità, si deve concludere che essa è un concetto necessariamente complesso i cui presupposti sono:

1)  l’imputabilità, non potendo muoversi alcun rimprovero a chi non è in grado di percepire il significato ed il disvalore della propria condotta (v. Parte II, Cap. 7);

2)  il dolo o la colpa, ovvero le forme in cui si manifesta la volontà criminosa (v. Parte II, Capp. 8 e 9);

3)  la conoscibilità del divieto penale, non potendo altrimenti rimproverarsi all’agente di aver tenuto un comportamento antidoveroso (v. Parte II, Cap. 12, par. 2.1);

4)  l’assenza di cause di esclusione della colpevolezza, in quanto, per poter qualificare come riprovevole la volontà del soggetto agente, è necessario che questa sia “autentica”, ovvero che si sia formata correttamente e che non sussistano circostanze anomale che, concomitanti alla condotta, impediscano all’agente di determinarsi volontariamente all’azione, rendendo di fatto impossibile l’adozione di un comportamento alternativo lecito (v. Parte II, Cap. 12, par. 1)

Il principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost.

L’art. 27 Cost., a tenore del quale la responsabilità penale è personale, rappresenta il referente costituzionale della colpevolezza e impone al legislatore requisiti minimi per l’incriminazione: nullum crimen sine culpa.

Il principio della responsabilità penale personale va inteso non soltanto nel significato minimo di divieto di responsabilità per fatto altrui, ma nel senso più pregnante di responsabilità per fatto proprio colpevole. Ciò si desume innanzitutto dal collegamento sistematico tra il comma 1 ed il comma 3 dell’art. 27 Cost., in quanto la funzione rieducativa postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Non ha infatti senso rieducare chi, non essendo almeno in colpa rispetto al fatto, non ha certo bisogno di essere reinserito socialmente.

Da tale accezione della colpevolezza discende l’espulsione dall’ordinamento di tutte le forme di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul dato della produzione materiale dell’evento, causalmente collegato alla condotta del suo autore.

La suitas della condotta

Preliminare ad ogni indagine sulla colpevolezza è l’accertamento della ricorrenza o meno della c.d. suitas della condotta.

Ciò significa che prima di stabilire a quale titolo soggettivo l’agente debba rispondere di un determinato fatto, ossia se a titolo di dolo o di colpa, preterintenzione o responsabilità oggettiva, è necessario verificare se la condotta sia o meno riferibile all’agente stesso: senza coscienza e volontà dell’azione o dell’omissione (appunto la suitas della condotta) non vi può essere responsabilità penale. L’art. 42, comma 1, c.p. stabilisce infatti che “nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà”.

Solo quando sia presente questa “signoria” della volontà del soggetto sulla situazione concreta, il fatto dell’uomo si distingue dai semplici accadimenti naturali e diviene oggetto del divieto penale.

Ciò detto occorre interrogarsi sul significato della citata formula legislativa, dando conto del fatto che al riguardo si sono formate diverse interpretazioni.

Secondo un primo orientamento, tale formula andrebbe intesa unicamente in senso letterale, ossia nel significato psicologico di coscienza e volontà reali, di talché una condotta può considerarsi propria dell’agente solo in quanto sia il risultato di un suo impulso cosciente e volontario. Tale nozione si è però rilevata troppo ristretta, in quanto se essa ben si adatta ai delitti dolosi, lo stesso non può dirsi invece con riferimento a molte condotte tipicamente colpose, come i c.d. atti automatici, quelli riflessi, istintivi, nelle azioni dovute a distrazione o a dimenticanza. In tutti questi casi, in cui nessuno dubita circa la configurabilità di una responsabilità colposa, adottando la nozione restrittiva di cui sopra, si dovrebbe escludere sempre in radice la suitas.

Altra dottrina ha invece sostenuto la necessità di interpretare estensivamente la formula legislativa “coscienza e volontà”, ricomprendendo in essa non solo la coscienza e volontà effettiva e reale, ma anche quella potenziale: devono essere ritenute pertanto riferibili all’agente, oltre che le condotte frutto di un reale impulso cosciente della volontà, anche quelle che, pur non essendolo, potevano comunque essere dall’agente dominate ed impedite con uno sforzo del volere.

Quanto agli atti automatici, si deve quindi distinguere:

1)  quelli impedibili dalla volontà mediante i suoi poteri di arresto o di impulso (ad es.: atti abituali);

2)  quelli non impedibili perché si svolgono al di fuori di ogni possibile controllo del volere, come appunto gli atti che la coscienza non avverte e non può avvertire neppure con lo sforzo della attenzione, nonché gli atti, che pur essendo avvertiti dalla coscienza, sono determinati da una forza fisiologica, fisica e psichica, sempre interna al soggetto, ma superiore al suo potere di volontà (ad es.: sonnambulismo).

Secondo questa impostazione, quindi, la suitas assumerebbe connotati diversi a seconda dell’elemento soggettivo che caratterizza il reato. In particolare:

1)  nelle fattispecie criminose punite a titolo di dolo e colpa cosciente, la suitas consisterebbe nella coscienza e volontà “reali”, intese come entità psicologiche e naturalistiche, risultando pertanto la condotta il prodotto di un impulso reale, cosciente e volontario dell’agente;

2)  nelle fattispecie criminose punite a titolo di colpa incosciente, nonché nei reati omissivi dovuti a dimenticanza, essa si identificherebbe con la coscienza e volontà “potenziale” e quindi come tale avrebbe un contenuto solo ipotetico e normativo, potendo essere accertata soltanto alla stregua di un giudizio “probabilistico” avente ad oggetto la dominabilità della condotta da parte dell’agente. Ciò significa che, in questi casi, l’azione potrà considerarsi riferibile all’agente anche quando risulti soltanto dominabile dal volere di costui, dovendosi intendere come dominabile ogni atto che può essere impedito mediante l’attivazione dei normali poteri di arresto o di impulso della volontà.

Sulla scorta di tali premesse, dovranno considerarsi dominabili e quindi riferibili all’agente, tutti gli atti dovuti a mera dimenticanza, nonché quelli automatici di tipo abituale, risultando gli stessi evitabili attraverso un doveroso sforzo del volere.

Diversamente, per gli atti automatici di tipo istintivo e riflesso occorrerà accertare, nel caso concreto, se il potere di controllo e arresto dell’agente possa dominare la forza psichica e fisiologica che sta all’origine del riflesso o dell’istinto, dovendosi concludere per la coscienza e volontà dell’azione ogniqualvolta tale accertamento dia esito positivo.

Tra le cause di esclusione della suitas si suole ricondurre:

1)  la forza maggiore, ovvero ogni forza esterna al soggetto agente, che determina lo stesso in modo inevitabile ed irresistibile a tenere un comportamento attivo od omissivo (vis major cui resisti non potest);

2)  il costringimento fisico; 3)         l’incoscienza indipendente dalla volontà, ovvero non voluta né dipendente da una imprudenza o negligenza del soggetto agente. Non è pertanto punibile per mancanza di coscienza e volontà della condotta chi, ad esempio, compie un atto criminoso in stato di delirio febbrile o sonnambulismo, ovvero a causa di un malore improvviso, a meno che non sussista per costui la possibilità di scongiurare il verificarsi di tale evenienza con un doveroso atteggiamento prudente e diligente. Così, nel caso di sinistro stradale verificatosi a seguito di malore accusato dal conducente l’autoveicolo che ha invaso la corsia opposta di marcia, la suitas della condotta potrà considerarsi esistente, ovvero essere esclusa, a seconda che il malore medesimo fosse prevedibile o meno dall’agente.

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*Contributo estratto dal Compendio di diritto penale – parte generale e parte speciale di A. Trinci e S. Farini – Dike Giuridica – Aprile 2024