La prova e i mezzi di prova – Per poter far valere un diritto nell’ambito di un giudizio i privati devono provare i fatti giuridici che ne costituiscono il fondamento. Da tale affermazione si deduce lo straordinario rilievo rivestito dalla materia delle prove: i diritti e i fatti della realtà materiale che ne sono alla base acquistano rilevanza giuridica nel processo e pertanto possono in tale sede essere riconosciuti e tutelati solo in quanto le parti siano in grado di fornire la prova delle proprie asserzioni; prova che sola può attribuire valore concreto a situazioni giuridiche che altrimenti non potrebbero dirsi esistenti di fronte ad un giudice.
Autorevole dottrina si è soffermata sulla differenza tra:
a) “la documentazione che è forma” di un fatto o di un negozio giuridico, che ricorre ogniqualvolta la legge o la volontà delle parti prescriva per determinati negozi la necessità di una forma documentale ad substantiam, ossia ai fini della stessa sussistenza di essi (in tal caso il negozio “non viene ad esistenza senza la documentazione”);
b) “la documentazione che è prova” di un fatto o di un negozio giuridico, che consiste nella documentazione viene richiesta a fini probatori, non ponendosi, in tal caso, la stessa come un elemento essenziale del negozio, il quale esiste anche senza di essa.
La “prova” è definita, dalla maggior parte degli autori, come quello “strumento processuale in base al quale il giudice trae utili informazioni per la ricostruzione dei fatti che fondano le ragioni delle parti e conseguentemente forma il suo convincimento sulla verità degli stessi”.
Quanto ai problematici rapporti tra la nozione di “prova” e quella di “mezzo di prova”, una parte della dottrina sottolinea l’esistenza tra essi di un fondamentale rapporto di “mezzo” e “fine”, per cui:
– il “mezzo di prova” si configurerebbe come la fonte di conoscenza mediante la quale si cerca di fornire al giudice la ricostruzione dei fatti da provare;
– la “prova” andrebbe ad identificare il risultato finale di tale procedimento dimostrativo, capace di rappresentare al giudice l’esistenza ovvero l’inesistenza di quei fatti.
Argomentando a contrario, dalla puntuale elencazione dei singoli mezzi di prova e dalle modalità con cui essi vengono assunti nel processo, parte della dottrina ha affermato la tassatività delle relative previsioni legali e la conseguente tipicità dello stesso sistema dei mezzi di prova, i quali andrebbero a costituire un catalogo chiuso.
A tale tendenza dottrinale si è tuttavia contrapposta l’opinione di coloro che, considerata la mancanza nel nostro ordinamento processuale di una norma di chiusura che espressamente escluda l’ammissibilità di prove innominate e la non decisività dell’argomento tratto dal catalogo tradizionale previsto dal legislatore, ammettono la possibilità d’ingresso di mezzi di prova atipici nel processo, i quali costituirebbero, fra l’altro, piena espressione del cd. “diritto alla prova” e del principio della verità oggettiva quale fine primario dell’accertamento giudiziale.
A tale orientamento ha aderito anche la giurisprudenza più recente che ha ammesso prove innominate quali:
– visure catastali e camerali;
– parcelle;
– fatture;
– lettere;
– dichiarazioni dei redditi.
Vari i criteri di classificazione in base ai quali vengono distinte le prove.
In primo luogo, in rapporto alle loro diverse modalità di formazione e di introduzione nel processo, le prove possono essere suddivise in:
– “prove precostituite” o “documentali”, le quali, risultanti da un documento (ad es., atto pubblico, scrittura privata) e formate prima del processo, devono in tale sede semplicemente essere prodotte;
– “prove costituende” o “semplici”, le quali, tipicamente orali (ad es., testimonianza, confessione, giuramento), vengono a formarsi in concomitanza allo svolgimento del processo stesso, entro l’ambito e come risultato dell’attività istruttoria in esso svolta.
A seconda poi che la prova consista nella rappresentazione diretta del fatto da provare nel suo concreto svolgersi, ovvero nella rappresentazione di un fatto diverso per giungere, mediante ragionamenti induttivi o congetture, alla prova indiretta del fatto da provare, si distinguono le “prove storiche” dalle “prove logiche” (le presunzioni).
Ulteriore distinzione, basata sulla loro diversa efficacia nel giudizio, è quella tra “prove legali” e “prove libere”. In merito occorre prendere le mosse dal principio del libero apprezzamento della prova contenuto nell’art. 116 c.p.c., il quale, al comma 1, stabilisce che “il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti”, ponendo, dunque, come regola fondamentale quella della libera valutazione da parte dell’organo giudicante dell’efficacia e del valore da attribuire alla prova.
Come prefigurato dallo stesso art. 116 c.p.c., in molti casi tuttavia si assiste ad interventi legislativi derogatori rispetto al principio summenzionato mediante i quali vengono dettate delle regole di prova legale il cui scopo è quello di semplificare l’iter di accertamento della verità controversa attraverso valutazioni aprioristiche dell’efficacia da attribuire a determinate prove, cd. “legali”, la cui rilevanza viene predeterminata dalla legge e rispetto alle quali il giudice non può svolgere alcuna considerazione discrezionale, ma deve giudicare assumendo per verificati i fatti che in base ad esse risultino accaduti.
Il principio dispositivo, la regola sull’onere della prova e le relative modificazioni
Il processo civile, in quanto avente tendenzialmente ad oggetto rapporti tra privati riguardanti interessi particolari liberamente disponibili, è retto dal cd. “principio dispositivo”, il quale, attraverso i vari corollari che ne costituiscono espressione, ben evidenzia la signoria che le parti mantengono sul rapporto controverso.
Prima manifestazione di tale principio è rintracciabile nella necessità di un’iniziativa di parte ai fini dell’instaurazione del processo stesso: si tratta del cd. “principio della domanda” – consacrato non solo sul piano processuale nell’art. 99 c.p.c. ma anche su quello sostanziale nell’art. 2907 c.c. – in base al quale il giudice non può pronunciarsi oltre o al di fuori delle richieste formulate dalle parti.
Secondo corollario del principio dispositivo è rappresentato dal cd. “onere di allegazione dei fatti” che giustificano le richieste avanzate dagli interessati e che conseguentemente vanno a circoscrivere l’ambito di cognizione dell’organo giudicante, il quale non potrà porre a fondamento della propria decisione elementi diversi da quelli indicati dalle parti.
Il carattere dispositivo del processo civile si esprime, infine, nel cd. “principio di disponibilità delle prove” di cui all’art. 115 c.p.c., in base al quale attore e convenuto devono dimostrare i fatti da loro allegati, non potendo il giudice acquisirne d’ufficio la relativa conoscenza mediante lo svolgimento delle indagini necessarie al loro accertamento e dovendo, invece, egli servirsi esclusivamente delle prove fornite dalle parti. Non necessitano di prova, ex art. 115, comma 2, c.p.c.:
– i fatti notori rientranti nella comune esperienza;
– i fatti non specificamente contestati, in base ad un principio adesso espressamente codificato dall’art. 115, comma 1, c.p.c. (a seguito della modifica apportata dalla L. 69/2009).
In base al summenzionato principio di disponibilità della prova, quest’ultima viene dunque a costituire oggetto di un onere gravante sulle parti del processo civile, la cui ripartizione fra attore e convenuto è regolata dall’art. 2697 c.c. che si fonda sul principio generale secondo cui l’onere di provare un fatto ricade sul soggetto che pone proprio quel fatto alla base della propria tesi:
– colui che vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (cd. “fatti costitutivi”);
– colui che, invece, eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda (cd. “fatti estintivi”, circostanze impeditive e modificative).
Il sistema di ripartizione dell’onere della prova, così come previsto in via generale, può subire delle modifiche innanzitutto ad opera della stessa legge che, mediante il ricorso al meccanismo delle presunzioni iuris tantum, talvolta esonera chi agisce in giudizio dalla necessità di provare i fatti costitutivi del diritto fatto valere, accollando immediatamente al convenuto la controprova; ipotesi tipica dell’inversione legale dell’onere probatorio è quella di cui all’art. 1988 c.c. in cui si dispensa colui a favore del quale è stata rilasciata una promessa di pagamento o che si pone come destinatario di una ricognizione di debito dall’onere di provare il rapporto fondamentale, la cui eventuale inesistenza deve essere dimostrata dalla parte (convenuta) che si è dichiarata debitrice. Il regime dell’onere della prova può, poi, essere invertito o modificato (ammettendo, ad es., il ricorso soltanto ad alcuni mezzi di prova e non ad altri) dalle stesse parti mediante accordi pattizi preventivi, la cui validità è tuttavia subordinata al ricorrere delle specifiche condizioni di cui all’art. 2698 c.c., ossia al fatto che tali convenzioni abbiano ad oggetto diritti disponibili e che comunque anche in tal caso non rendano ad una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del proprio diritto.
*Contributo estratto dal Compendio maior di diritto civile di F. Caringella, V. de Gioia – Dike Giuridica – Marzo 2024