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Il provvedimento amministrativo*

Il provvedimento amministrativo

Il provvedimento amministrativo: premessa

La dottrina liberale di matrice ottocentesca concepiva l’Amministrazione come autorità che manifesta la propria volontà con l’emanazione di atti unilaterali, dotati di potestà d’imperio, in grado di incidere autoritativamente sulla sfera giuridica dei destinatari. Tale concezione, basata su una sostanziale identificazione tra attività della P.A. e atto amministrativo, ha trovato espresso riconoscimento anche in sede costituzionale: il sistema di tutela giurisdizionale nei confronti della P.A., infatti, viene ricostruito come possibilità di far valere le proprie posizioni di diritto soggettivo e interesse legittimo contro “gli atti” della P.A. (art. 113 Cost.).

L’approfondimento degli studi sull’atto amministrativo, tuttavia, ha determinato un progressivo superamento di tale sovrapposizione. In particolare, la rivisitazione in chiave moderna del ruolo di supremazia riconosciuto alla P.A. verso gli amministrati, unita alla valorizzazione della natura “vincolata nei fini” dell’azione amministrativa, hanno portato alla piena autonomia dogmatico-giuridica dell’atto amministrativo rispetto all’attività dell’Amministrazione.
Ne sono conseguiti, da un lato, l’identificazione delle differenze tra l’atto amministrativo e l’istituto del negozio giuridico di diritto privato; dall’altro, l’enucleazione della figura del provvedimento amministrativo nell’ambito della più ampia categoria di atto amministrativo.

Il provvedimento amministrativo: nozione

Nel nostro ordinamento, benché manchi una nozione espressa di provvedimento amministrativo, sussistono taluni riferimenti normativi dai quali è possibile ricostruire la definizione dell’istituto (si pensi all’art. 27 T.U. Cons. Stato; all’art. 1, comma 1bis della L. 241/1990; all’art. 7 c.p.a.).

La predetta lacuna definitoria è stata colmata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che hanno elaborato diverse teorie.

La teoria formale-sostanziale fa leva sulla presenza di due elementi: uno di carattere formale, costituito dalla necessità che l’atto promani da un’autorità amministrativa, e uno di carattere sostanziale, rappresentato dalla circostanza che sia esercizio di una potestà amministrativa finalizzata alla cura dell’interesse pubblico.

La successiva teoria negoziale, invece, ricostruisce l’atto amministrativo secondo il modello del negozio giuridico di diritto privato. La teoretica in esame, infatti, opera un parallelismo tra l’autonomia privata e la discrezionalità amministrativa e distingue gli atti amministrativi negoziali, che costituiscono manifestazioni di volontà della P.A. volte a realizzare finalità pubbliche, dai meri atti amministrativi, che invece si concretizzano in una dichiarazione di scienza.

Attualmente, la teoria accolta dalla dottrina prevalente è quella funzionale-procedimentale, che opera una distinzione tra atto e provvedimento sulla base delle caratteristiche dell’operato della P.A.: il provvedimento rappresenta l’espressione tipica del potere amministrativo, nella misura in cui consente di manifestare all’esterno la volontà della P.A. ed è idoneo a incidere unilateralmente nella sfera giuridica dei terzi. Per converso, l’atto amministrativo è una dichiarazione di volontà, di conoscenza, di giudizio, con funzione accessoria e strumentale rispetto al provvedimento. Nella nozione di atto amministrativo, dunque, vi rientrano tutti gli atti endoprocedimentali di rilievo meramente interno che preparano il provvedimento, costituendone il presupposto cronologico e contenutistico. L’atto, quindi, non è idoneo a spiegare effetti diretti sulla sfera giuridica di terzi, e, quindi, non è autonomamente impugnabile, salvo che abbia eccezionalmente attitudine direttamente lesiva.

Il provvedimento amministrativo: caratteri

L’impostazione prevalente individua i caratteri propri del provvedimento nella: a) unilateralità; b) tipicità e nominatività; c) imperatività/autoritarietà; d) inoppugnabilità; e) efficacia ed esecutività.

L’unilateralità segnala che il provvedimento non ha bisogno del concorso della volontà dei destinatari per esistere, carattere che lo distingue dai contratti, anche di diritto pubblico, che richiedono il concorso della volontà di due parti. Il provvedimento, inoltre, si differenzia anche dai negozi unilaterali di diritto privato poiché, essendo espressione di un potere amministrativo, può modificare unilateralmente le posizioni giuridiche dei terzi anche in senso negativo, mentre gli atti unilaterali di diritto privato possono modificare la sfera giuridica dei terzi, senza il loro consenso, solo in senso favorevole.

La tipicità indica che i provvedimenti sono definiti nei loro elementi costitutivi dalla legge, mentre la nominatività impone che essi siano solo quelli espressamente previsti dal Legislatore. Tipicità e nominatività sono estrinsecazione del principio di legalità: il potere di sacrificare unilateralmente le posizioni giuridiche dei terzi, infatti, deve sempre essere previsto dalla legge, che ne determina anche i presupposti e gli effetti. Ciò comporta che ogni provvedimento è legittimo solo se corrisponde al potere amministrativo conferito dalla legge: qualora un atto sia posto in essere per perseguire un interesse, anche pubblico, diverso da quello per il quale è previsto, infatti, esso risulta viziato da eccesso di potere per sviamento dall’interesse pubblico o dalla causa tipica. Ulteriore conseguenza è la necessaria qualificazione del provvedimento in base al potere di cui costituisce legislativamente espressione, a prescindere dalla qualificazione a esso attribuita dalle parti o alle norme in esso citate.

Il requisito dell’imperatività/autoritarietà è il più discusso.

Secondo la teoria classica il provvedimento è la manifestazione di un potere d’imperio, che costituisce l’essenza stessa dell’atto: l’imperatività, dunque, si riferirebbe all’idoneità del provvedimento di costituire, modificare ed estinguere le posizioni giuridiche dei terzi a prescindere dal loro consenso, essendo esercizio di quel potere. Da tale caratteristica la teoria classica desumeva la titolarità di una serie di poteri in capo all’Amministrazione, che valevano a distinguere l’agire amministrativo da quello giurisdizionale e da quello privato. Si affermava, così, che l’imperatività/autoritarietà del provvedimento comportasse il divieto del giudice ordinario di modificare il provvedimento; la sua esecutorietà, cioè la possibilità di portarlo a esecuzione forzata senza bisogno dell’intervento del giudice; l’autotutela, cioè il potere della P.A. di modificare o revocare una sua precedente manifestazione di volontà unilateralmente; il potere di degradare i diritti soggettivi a interessi legittimi per assoggettarli al potere amministrativo.

Oggi, nonostante il carattere dell’autoritarietà/imperatività sia stato ripreso – sia pur in modo criptico – nell’art. 1, comma 1bis della L. 241/1990, esso ha perso diversi degli effetti che la teoria classica vi attribuiva: infatti, nel dettare lo statuto del provvedimento amministrativo, il Legislatore ha ricondotto il potere amministrativo all’unica fonte che, in un regime democratico, può giustificarne l’esistenza: la legge. Ne è scaturito che il divieto imposto al giudice ordinario di modificare e revocare il provvedimento consegue al principio di separazione dei poteri e trova ormai nella legge diverse eccezioni; l’esecutorietà non è più un principio generale, ma si applica ai soli provvedimenti ai quali la legge conferisce espressamente tale carattere (art. 21ter, L. 241/1990); l’autotutela trova fondamento e disciplina nella legge (artt. 21quinquies e 21nonies, L. 241/1990); il potere di degradazione è ormai superato, ritenendosi che le situazioni di diritto e interesse convivono ab initio, manifestandosi a seconda del soggetto (pubblico o privato) che incide sul bene tutelato.

Sembra lecito, quindi, concludere che l’autoritarietà o imperatività del provvedimento consiste oggi nella sua idoneità a modificare situazioni giuridiche altrui, senza necessità di alcun consenso.

Il concetto di autoritarietà resta, in ogni caso, criterio centrale ai fini del riparto di giurisdizione, in quanto la Corte costituzionale (sent. 204/2004 e 191/2006) ha affermato che una materia può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo se in essa la P.A. agisce anche esercitando il suo potere autoritativo.

Il quarto requisito individuato dalla dottrina è l’inoppugnabilità, ovvero l’idoneità del provvedimento a divenire definitivo decorso un breve termine di decadenza (di regola di 60 giorni) per l’impugnazione. Non si tratta, quindi, di un carattere immanente al provvedimento amministrativo, ma di una peculiarità che nasce in relazione alla decorrenza dei termini d’impugnazione, a garanzia dell’efficacia della statuizione provvedimentale, sia questa valida o invalida, nonché dei successivi provvedimenti che tale statuizione presuppongono.

Ulteriori caratteri tipici del provvedimento sono l’efficacia, intesa come idoneità dello stesso a produrre effetti, e l’esecutività, come idoneità del provvedimento efficace a essere eseguito. Oggi i canoni in commento sono disciplinati dall’art. 21quater della L. 241/1990, secondo cui i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo.

3.1  L’esecutività e l’eseguibilità

I termini esecutività, eseguibilità ed esecutorietà sono talvolta utilizzati in modo promiscuo dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Si tratta, tuttavia, di nozioni che devono essere nettamente distinte.

L’esecutività, infatti, rappresenta l’idoneità del provvedimento amministrativo a essere eseguito.

L’eseguibilità, invece, rappresenta la possibilità legale e giuridica che gli effetti del provvedimento possano prodursi e coincide con l’assenza di impedimenti legali o di fatto alla sua concreta attuazione.

Alla eseguibilità pare far riferimento l’art. 21quater, L. 241/1990, che, al comma 2, stabilisce la possibilità che l’efficacia o l’esecuzione del provvedimento possa essere sospesa “per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge”. La norma, dunque, assegna all’Amministrazione un potere cautelare generale attraverso il quale, in presenza di un interesse pubblico specifico, l’Amministrazione può arrestare l’efficacia o l’esecuzione di un atto per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario. Secondo la giurisprudenza (TAR Veneto, Venezia, sez. III, 14 maggio 2019, n. 591) è sufficiente che vi siano elementi dai quali possa essere ritenuta verosimile, secondo un giudizio di probabilità, l’illegittimità dell’atto o la sua inopportunità, che dovrebbero poi formare oggetto dell’intervento di autotutela definitivamente demolitorio. Quanto all’onere motivazionale, la P.A. dovrà indicarvi, oltre alle ragioni che impongono l’adozione della sospensione, il termine di efficacia dell’atto cautelare. Tale termine resta nella disponibilità della P.A., che può anticiparlo o prorogarlo, per una sola volta, per un termine di pari durata.

Come chiarito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, se si tratta di atti amministrativi che non hanno natura autoritativa – non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma esercizio di una facoltà nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico – non può applicarsi la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21nonies della l. 241/1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per i provvedimenti manifestazioni di imperio (Cons. Stato, Ad. Plen., 30 agosto 2018, n. 12).

Il comma 1 dell’art. 21quater, infine, prevede che “i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo” e non chiarisce se vi rientrino oltre ai provvedimenti che richiedono di essere eseguiti dall’Amministrazione che li ha emanati, anche i provvedimenti che dovrebbero essere eseguiti dai soggetti che ne sono destinatari.

3.2  Segue: L’esecutorietà

L’esecutorietà del provvedimento amministrativo consiste nel potere, in capo all’Amministrazione, di attuare in maniera coattiva la determinazione provvedimentale, senza dovere ricorrere all’autorità giurisdizionale.

Quanto al fondamento dell’esecutorietà, si sono fronteggiate, per lungo tempo, due diverse tesi. La prima, superata, derivava l’esecutorietà del provvedimento dalla presunzione di legittimità: tale presunzione si basa sul fatto che il potere pubblico di cui l’atto è espressione è volto esclusivamente al conseguimento del vantaggio sociale, id est dell’interesse pubblico. Secondo l’opposto orientamento, invece, l’esecutorietà discendeva dalla supremazia che l’ordinamento riconosceva in capo alla P.A.

È prevalsa, tuttavia, una terza tesi che ritiene l’esecutorietà una forma di manifestazione di un potere ulteriore rispetto a quello primario: il suo fondamento, pertanto, deve essere rinvenuto nel principio di legalità.

Da ciò discende che l’esecutorietà rappresenta un carattere eccezionale del provvedimento amministrativo, dacché ai sensi dell’art. 21ter della L. 241/1990, il potere dell’Amministrazione di imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi è limitato ai soli casi stabiliti dalla legge. Tale norma, dunque, riconduce l’esecutorietà alla riserva di legge, in conformità all’art. 23 Cost.

Occorre rilevare, però, che l’art. 21ter non contiene indicazioni in merito al procedimento da seguire per portare a esecuzione il provvedimento, dacché si limita a prescrivere come condizione la diffida ad adempiere rivolta al soggetto tenuto all’esecuzione. Pertanto, per gli obblighi diversi da quelli pecuniari, per i quali il comma 2 dell’art. 21ter prevede l’applicazione per l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato, si applicheranno le discipline di settore.

Rispetto a tali discipline di settore, parte della dottrina ha distinto tra esecuzione diretta, posta in essere dalla stessa P.A. con proprie risorse, i cui costi sono addebitati all’obbligato inadempiente solo se espressamente previsto dalla disciplina di settore, ed esecuzione in danno, affidata dalla P.A. a un soggetto terzo, i cui costi sono posti a carico dell’inadempiente e recuperate dalla P.A. secondo le disposizioni in materia di esecuzione coattiva dei crediti dello Stato.

Altra tesi, invece, per distinguere tra diverse modalità di esecuzione, fa leva sul contenuto dell’obbligo a seconda che si tratti di obbligo infungibile, con la previsione, da parte della legge, di forme di coazione diretta, o infungibile, con l’utilizzo di strumenti di esecuzione d’ufficio da parte della P.A.

3.2.1  Ipotesi applicative dell’esecutorietà: l’art. 832 c.c.

Quanto ai mezzi con cui si realizza l’esecutorietà del provvedimento, essi variano a seconda del contenuto del provvedimento da portare a esecuzione, ovvero del tipo di obbligo inadempiuto.

Per gli obblighi di dare o consegnare una cosa determinata, a fronte del rifiuto del privato, l’Amministrazione andrà a effettuare lo spossessamento del bene, per esempio attraverso l’occupazione d’urgenza.

Per i beni del demanio pubblico, l’art. 823 c.c. (rubricato “Condizione giuridica del demanio pubblico”), al comma 2, dispone che spetta alla P.A. la tutela dei beni che ne fanno parte. A tal fine la P.A. può sia agire in via amministrativa (ricorrendo, per esempio, all’autotutela possessoria mediante adozione di atti amministrativi d’ingiunzione al rilascio) sia avvalersi degli ordinari mezzi a difesa della proprietà e del possesso regolati dal Codice civile. La scelta tra le due tipologie di strumenti offerti alla P.A. si pone in termini di alternatività, con la conseguenza che una volta intrapresa la via privata, la P.A. non potrà in alcun modo attivarsi con lo strumento dell’autotutela. Agire a mezzo dello strumento privatistico, piuttosto che di quello pubblicistico, influisce inevitabilmente sulla giurisdizione: laddove l’Amministrazione scelga di avvalersi degli strumenti del diritto comune, la giurisdizione spetterà al giudice ordinario. Viceversa, l’esercizio del potere di autotutela possessoria ex art. 823, comma 2, c.c. rientra nella cognizione del giudice amministrativo, in quanto l’utilizzo di questo strumento, traducendosi in un provvedimento amministrativo, implica una valutazione motivata (e sindacabile in giudizio) circa l’interesse pubblico al ripristino dell’utilizzazione collettiva del bene. Quanto all’ambito oggettivo di applicazione, i beni da tutelare attraverso le facoltà previste dall’art. 823, comma 2, c.c., sono solo quelli facenti parte del demanio pubblico, non rientrandovi, invece, quelli ricompresi nel patrimonio disponibile. In merito all’ambito soggettivo l’art. 823, comma 2, c.c. trova applicazione unicamente nei confronti dei soggetti privati, in quanto l’autotutela della P.A. è espressione della sua supremazia e non può essere esercitata nei confronti di soggetti che fanno parte anch’essi della P.A.. Infine, la natura dell’attività prevista dall’art. 823, comma 2, c.c. si presenta a carattere vincolato, in quanto l’esercizio del potere di ordinare il rilascio di un bene demaniale posseduto sine titulo da terzi è condizionato dalla salvaguardia dei beni ricadenti nel demanio pubblico.

*Contributo estratto dal Compendio maior di diritto amministrativo di F. Caringella – Dike Giuridica – Marzo 2024