Dike giuridica, Istituti e sentenze commentate

Responsabilità dei padroni e dei committenti*

Responsabilità dei padroni e dei committenti*

Responsabilità dei padroni e dei committenti – L’art. 2049 c.c. dispone che “i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze alle quali sono adibiti.

La fattispecie descritta costituisce una ipotesi di responsabilità per fatto illecito altrui, la cui natura giuridica è stata molto dibattuta in dottrina e giurisprudenza.

Responsabilità dei padroni e dei committenti – Secondo la dottrina prevalente (Alpa), l’art. 2049 c.c. rappresenta un’ipotesi di responsabilità oggettiva per fatto altrui e trova il suo fondamento nel rischio d’impresa che, nel quadro della distribuzione dei costi e dei ricavi, deve gravare sul preponente, indipendentemente da ogni indagine sulla colpa. Occorre precisare, tuttavia, come non tutti riconoscono nel rischio d’impresa il fondamento della responsabilità de quo, individuandolo, piuttosto, nel rapporto di preposizione che consente ad un soggetto di avvalersi dell’opera altrui allargando a dismisura la propria sfera d’azione. Più in generale, quindi, la norma si fonda sul principio secondo cui l’appropriazione dell’attività altrui comporta l’imputazione giuridica del danno derivante dall’attività stessa (Bianca).

Tale modello di responsabilità risponde al principio romanistico per cui cuius commoda, eius et incommoda e la ratio di tale norma è dunque espressiva di un principio generale di equità e di giustizia sociale. Appare, infatti, conforme a un’elementare esigenza sociale che chi si serva dell’attività lavorativa altrui per realizzare i propri fini risponda delle conseguenze dannose derivanti da tale attività.

Inoltre, in tal modo si assicura al danneggiato una tutela più efficace della propria posizione giuridica, in quanto questi potrà agire sia contro l’autore immediato del fatto illecito sia nei confronti del preponente e i due soggetti saranno tenuti in solido al risarcimento del danno, secondo le regole dell’art. 2055 c.c.

A ben vedere, nonostante il regime solidale, distinti sono i criteri di imputazione della responsabilità impiegati, mentre il danneggiante risponderà per colpa, in virtù del regime ordinario, ex art. 2043, per il datore si verte in ipotesi di responsabilità oggettiva per fatto altrui, ex art. 2049 c.c.

Esaminando i presupposti cui la norma collega l’applicazione della responsabilità di padroni e committenti, se ne colgono tre.

Innanzitutto, il rapporto di preposizione. A tal fine è sufficiente un rapporto anche di carattere temporaneo, o occasionale, purché caratterizzato, in fatto, da una manifestazione di volontà del dominus, che incarichi altri di svolgere una determinata attività nel proprio interesse. L’espletamento di una mansione su incarico e nell’interesse di altro soggetto costituisce, dunque, il nucleo strutturale minimo su cui poggia il rapporto di preposizione delineato dall’alt. 2049 c.c. In virtù di tale rapporto, il proponente acquista poteri di controllo giuridicamente rilevanti sull’attività del preposto.

Il secondo elemento è rappresentato dall’esistenza di un fatto illecito commesso dal preposto, accertato alla stregua degli ordinari criteri del risarcimento del danno aquiliano.

Il terzo, infine, si basa sulla sussistenza di un preciso rapporto di causalità tra fatto illecito, incombenze svolte e danno prodotto. Perché il fatto illecito possa dirsi compiuto dal dipendente “nell’esercizio delle incombenze” a cui è adibito, non occorre che tra le mansioni espletate e il fatto dannoso ricorra un rigoroso nesso di causa-effetto; è sufficiente quello che la giurisprudenza chiama, con espressione ormai consolidata, un nesso di “occasionalità necessaria”: basta, cioè, che tali incombenze o mansioni “abbiano reso possibile, o comunque agevolato, il comportamento produttivo del danno, mentre rimane irrilevante, al fine indicato, che tale comportamento si ponga al di là dei limiti di quelle incombenze o mansioni”.

Se ciò è vero su di un piano generale, occorre però riferire di un contrasto giurisprudenziale sorto intorno alla responsabilità della P.A. per il danno prodotto a terzi dal fatto penalmente rilevante del proprio dipendente.

Le ipotesi esaminate dalla giurisprudenza e che hanno originato un contrasto rimesso alle Sezioni Unite, con ordinanza del novembre 2018, attengono ai reati commessi dal pubblico dipendente per il perseguimento di un fine egoistico/privatistico che esula del tutto dall’assolvimento della funzione; funzione che diventa mera occasione dell’illecito, del tutto slegata dalla concretezza del pregiudizio.

Responsabilità dei padroni e dei committenti – Gli orientamenti emersi sul punto sono due.

Secondo quello tradizionale (ex pluris, Cass. 12 aprile 2011, n. 8306; id. 18 marzo 2003, n. 3980), per fondarsi la responsabilità della PA «deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità all’amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico, e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto. Tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all’amministrazione – o addirittura contrario ai fini che essa persegue – ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A.».

La ratio dell’orientamento in parola si fonda sull’art. 28 Cost., che delinea una forma di responsabilità oggettiva della P.A. per i fatti commessi dal dipendente, quando quest’ultimo agisca perseguendo fini pubblicistici. In virtù della relazione di immedesimazione organica, infatti, gli atti compiuti dalle persone fisiche preposte agli organi della Pubblica Amministrazione, in quanto posti in essere nell’esercizio della pubblica funzione, sono direttamente imputabili all’ente. Diversamente, le attività compiute dal pubblico dipendente nel perseguimento di fini privatistici o estranei alla funzione amministrativa esulano dal campo di applicazione dell’art. 28 Cost. Seguendo tale impostazione, l’Amministrazione risponderebbe del reato commesso dalla persona fisica, a titolo di responsabilità diretta e per fatto proprio ex art. 2043 c.c. quando l’attività dannosa si atteggi come esplicazione dell’attività statale o dell’ente pubblico. Non troverebbe dunque applicazione la diversa disciplina della responsabilità oggettiva per fatto altrui sancita dall’art. 2049 c.c.

Al contrario, in anni recenti si è registrato, soprattutto in sede penale, un orientamento della Suprema Corte secondo cui è configurabile la responsabilità civile della P.A. anche per le condotte dei dipendenti pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali mediante la realizzazione di un reato doloso, quando le stesse sono poste in essere sfruttando, come premessa necessaria, l’occasione offerta dall’adempimento di funzioni pubbliche, e costituiscono, inoltre, non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio di tali funzioni, in applicazione di quanto previsto dall’art. 2049 cod. civ. (cfr. Cass. pen., 20 gennaio 2015, n. 13799; id., 3 aprile 2017, n. 35588). L’orientamento in esame, rimasto minoritario nella giurisprudenza civile, reputa che l’art. 28 Cost. consenta di estendere l’ambito della responsabilità dell’Amministrazione al danno cagionato a terzi per il fatto illecito commesso dal proprio dipendente quand’anche questi abbia approfittato delle sue attribuzioni per finalità egoistiche, estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza. In tal senso, l’art. 28 Cost. consentirebbe di assimilare il rapporto tra pubblico dipendente e Amministrazione ad un rapporto di lavoro alle dipendenze di un’impresa privata, ogniqualvolta il lavoratore compia atti nel perseguimento di scopi personali o comunque diversi da quelli istituzionali. Logica inferenza di tale ricostruzione è la configurabilità di una responsabilità della P.a. ex art. 2049 c.c. per il caso del reato commesso da dipendente pubblico che agisce per fini privatistici ed egoistici occasionati dall’esercizio di pubbliche funzioni.

Come anticipato, il descritto contrasto interpretativo è stato deferito alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che si sono pronunciate con la sent. 16 maggio 2019, n. 13246, con la quale hanno prestato adesione al secondo dei due menzionati orientamenti, rilevando come, nell’odierno contesto socio-economico, nessuna ragione possa più giustificare un trattamento differenziato dell’attività dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a quello di ogni altro ente privato, quando questa non inerisca all’esercizio di poteri pubblicistici.

Responsabilità dei padroni e dei committenti – Secondo il Supremo Consesso, la responsabilità risarcitoria della P.A. ha natura composta e si articola in due modelli differenziati in relazione alla natura privatistica o pubblicistica dell’attività svolta.

Se la condotta lesiva è estrinsecazione del potere pubblicistico della P.A. ed è stata, pertanto, posta in essere dall’agente nell’esercizio delle funzioni pubbliche e delle attribuzioni conferitegli, anche in presenza di un eventuale abuso o di illegittimità dell’operato, in forza del rapporto di immedesimazione organica, l’illecito connotato da occasionalità necessaria, sarà riferito direttamente all’Ente e sarà configurabile la responsabilità civile dell’Amministrazione ai sensi del generale disposto dell’art. 2043 c.c.

Nel caso in cui, invece, la condotta lesiva sia stata tenuta dall’agente pubblico approfittando dell’occasione offerta dall’esercizio delle funzioni e dei poteri pubblici conferitigli e tuttavia in qualità di semplice privato, per un fine strettamente personale ed egoistico, che si riveli assolutamente estraneo all’amministrazione (o addirittura contrario ai fini che essa persegue) ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, attesa la cessazione del rapporto di immedesimazione organica, è impedita la riferibilità degli atti compiuti all’ente di appartenenza. Ciò, in ogni caso, non è di ostacolo a che l’ente medesimo, al pari di ogni privato preponente, sia chiamato a rispondere – in solido con il proprio dipendente – a titolo di responsabilità indiretta ex art. 2049 c.c. Secondo il Supremo Consesso quando il pubblico funzionario abbia agito al di fuori delle finalità istituzionali dell’ente di appartenenza, la responsabilità di quest’ultimo, in assenza di deroghe normative espresse, lungi dal poter essere radicalmente esclusa, deve ritenersi soggetta alle generali regole civilistiche in tema di responsabilità del preponente.

Ogni diversificazione di trattamento, infatti, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a ogni altro privato preponente; ciò in palese contrasto, da un lato, con il principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3 Cost., dall’altro, con il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, escludendo quella più piena tutela risarcitoria perseguibile dal danneggiato con la concorrente responsabilità del preponente.

In definitiva per le Sezioni Unite “lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente” a titolo di responsabilità indiretta ex art. 2049 c.c. “del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni e agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o i poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integrino uno sviluppo oggettivamente anomalo”.

La giurisprudenza di legittimità ha successivamente precisato che la responsabilità diretta della P.A. per il fatto penalmente illecito del dipendente, tale da far reputare l’esistenza dell’immedesimazione organica con quest’ultima, sussiste non solo in presenza di formale provvedimento amministrativo, ma anche qualora sia stato illegittimamente omesso l’esercizio del potere autoritativo (Cass. 35020/2022).

Un’ulteriore questione di interesse peculiare intorno alla fattispecie descritta dall’art. 2049 c.c. ha riguardato il caso affrontato dalle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2017, n. 1641), che si è occupata della applicabilità del termine lungo di prescrizione, ex art. 2947, comma 3, c.c., alla responsabilità in parola.

Responsabilità dei padroni e dei committenti – L’art. 2947, comma 3, c.c. prevede, infatti, che, se il fatto illecito deriva da un reato, trova applicazione non il termine di prescrizione breve di cinque anni, ma quello eventualmente più lungo previsto per il reato. Ci si è chiesti, pertanto, se in tema di obbligazioni solidali derivanti da atti illeciti, qualora solo il fatto di uno dei coobbligati costituisca anche reato, mentre quello degli altri integri unicamente un illecito civile, possa invocarsi utilmente il termine prescrizionale più lungo previsto dall’ultimo comma dell’art. 2947 c.c. Il Collegio ha precisato la necessarietà di una responsabilità quantomeno indiretta per il fatto costituente reato affinché possa applicarsi il termine prescrizionale eventualmente più lungo. Tale termine prescrizionale troverà dunque applicazione in caso di responsabilità civile ex art. 2049 c.c., trattandosi di responsabilità indiretta per il medesimo fatto.

*Contributo estratto da “Manuale ragionato di diritto civile” di F. Caringella – Dike giuridica editrice – Ottobre 2024