A quali condizioni il cosiddetto “mobbing verticale” rientra nella fattispecie tipica di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p.? Quale rilevanza assume ai fini della configurazione del reato la condotta posta in essere dalla vittima?
Il licenziamento per giusta causa presuppone condotte gravemente inadempienti del lavoratore che ledono irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro e restano confinate nella relazione tra le parti private; mentre, il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d’ufficio, che si consuma con la abituale prevaricazione ed umiliazione commessa dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, approfittando della condizione subordinata di questi e tale da rendere i comportamenti o le reazioni della vittima irrilevanti ai fini dell’accertamento della consumazione del delitto. – Cass. VI, 19 settembre 2023, n. 38306.
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte affronta la questione inerente alla configurabilità del delitto di maltrattamenti ad opera del datore di lavoro nei confronti della propria dipendente nell’ambito di un rapporto lavorativo sfociato nel licenziamento per giusta causa di quest’ultima. Come si evince dall’analisi della vicenda fattuale, infatti, l’imputato condannato in primo grado ma assolto dalla Corte d’Appello, aveva posto in essere una serie di vessazioni in danno di una sua dipendente all’epoca in cui questa versava in una condizione di particolare vulnerabilità stanti sia il suo stato di gravidanza e sia le difficili condizioni economiche.
Nell’accogliere il ricorso di quest’ultima, costituitasi parte civile nel processo, la Corte di Cassazione, censura la sentenza di secondo grado per un duplice ordine di ragioni.
In primis, viene cassato, sotto il profilo processuale, l’iter motivazionale che aveva condotto la Corte d’Appello a ribaltare il verdetto di primo grado. In particolare, viene ritenuta non sufficientemente motivata la sentenza di secondo grado in merito al vaglio delle risultanze istruttorie poste alla base del verdetto assolutorio. A tal riguardo, la Suprema Corte richiama, invero, il granitico orientamento ermeneutico della giurisprudenza di legittimità a mente del quale, pur non occorrendo la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in caso di ribaltamento in senso assolutorio della sentenza di condanna di primo grado, nondimeno è necessario che il giudicante del secondo grado fornisca adeguata giustificazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella svolta dal giudice di prime cure; dando altresì atto del percorso logico argomentativo che ha condotto a tale soluzione (anche Cass., Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748, “Mannino”).
Sempre sotto il profilo procedurale, poi, la Suprema Corte censura la sentenza di secondo grado in merito al vaglio di attendibilità della persona offesa, nonché, in modo particolare, alla qualificazione della denuncia querela presentata da quest’ultima che la Corte d’Appello aveva svalutato, ritendendola strumentale. Sotto tale profilo, viene di fatti ribadito, sulla scorta di un risalente indirizzo interpretativo, che la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati (così Cass., sez. VI, 18 marzo 2009, n. 28553). Di talché, nessun rilievo ai fini della configurazione del delitto in esame poteva assumere la circostanza, negativamente valorizzata dal giudice di secondo grado, per cui la denuncia querela era stata proposta dalla dipendente solo a seguito del licenziamento spiccato nei suoi confronti dal datore di lavoro.
In secundis, sotto il profilo sostanziale, i giudici di Piazza Cavour affermano che mentre il licenziamento per giusta causa, collocandosi in un rapporto relazionale tra le parti private (datore-dipendente), presuppone condotte di grave inadempimento del lavoratore tali da minare il rapporto di fiducia, integra l’illecito penale di mera condotta dei maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, la condotta tenuta dal datore nei confronti del dipendente concretantesi in atti abituali di prevaricazione ed umiliazione.
La perseguibilità d’ufficio di tale reato, del resto, supera tranchant ogni rilievo che era stato svolto dalla Corte di Appello in punto di tardività e, dunque, di strumentalità della querela; rilievo che la Suprema Corte ritiene, difatti, di censurare.