Il trust è un istituto di origine anglosassone che affonda le sue antiche origini in quella parte dell’ordinamento inglese nota col nome di Equity.
Nel suo schema generale, il trust comporta un trasferimento fiduciario di beni e diritti da un soggetto (settlor) a un altro (trustee) che li amministra in favore di un terzo soggetto (beneficiary) ovvero per un determinato scopo (c.d. trust di scopo), secondo quanto stabilito nell’atto costitutivo del trust (deed of trust) e secondo i propositi e i desideri del settlor (espressi nella letter of wishes).
L’istituto crea, di fatto, uno sdoppiamento della proprietà: la proprietà formale spetta al trustee (legal estate), quella sostanziale (equitabile estate) al beneficiario, in esclusivo favore del quale il trustee deve gestire i beni trasferititgli.
Se questo è lo schema generale, la fisionomia concreta dei singoli trust può essere assai variegata.
Con riguardo alla struttura, si distinguono i trust con beneficiari dai trust di scopo. A differenza di quanto accade nel negozio di destinazione ex art. 2645ter c.c., infatti, il trust non necessariamente deve avere un beneficiario, potendosi dare casi di trust in cui vi è solo un vincolo di finalità. In tal caso, cioè, il trustee ha il dovere di gestire il bene in modo tale da perseguire una determinato obiettivo, senza alcun soggetto beneficiario in senso giuridico, destinatario cioè degli effetti giuridici della gestione.
Nell’ambito, poi, dei trust con beneficiario, si distingue tra trust eterodestinati (che sono la fattispecie ordinaria e più frequente), in cui il beneficiary è soggetto diverso dal settlor e trust autodestinati, in cui il settlor è anche il beneficiario della destinazione.
Per l’effetto, sul piano soggettivo, il trust potrà vedere il coinvolgimento, a seconda dei casi, di due o tre soggetti. Nel trust con beneficiario ordinario (e, cioè, eterodestinato) i soggetti sono tre: il settlor o disponente, che si spoglia della proprietà, determina le finalità e sceglie i soggetti beneficiari; vi è poi il trustee o fiduciario, che acquista il titolo formale di proprietario e si impegna a una gestione del bene secondo la volontà del disponente e, di conseguenza, ne accetta un godimento limitato in quanto patrimonio vincolato; infine, il beneficiary (che può essere più di uno), che è il proprietario sostanziale pur non avendo la disponibilità materiale del bene finché dura la gestione del trustee in base all’atto costitutivo. Nel trust con beneficiario di tipo autodestinato, ovvero nel trust di scopo i soggetti sono due: nel primo caso, perché il beneficiario è soggettivamente coincidente con il settlor, nel secondo perché manca, strutturalmente, la figura del beneficiario.
Accanto ai tre soggetti tradizionali, laddove l’atto costitutivo lo preveda, può esservi anche la figura del tutto eventuale del protector, incaricato di controllare la gestione fiduciaria e vigilare sulla fedeltà e sulla diligenza del trustee.
In relazione ai poteri del trustee, si distingue, poi, tra trust vincolati, in cui il disponente ha provveduto a predeterminare in modo puntuale e specifico i destinatari e/o gli scopi, limitando considerevolmente gli spazi discrezionali del trustee nella gestione del bene destinato, e trust discrezionali in cui il disponente indica una certa rosa o categoria di beneficiari e conferisce al trustee il potere discrezionale di decidere a chi di essi e/o in quale misura distribuire le utilità economiche provenienti dai beni oggetto del trust.
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Con riferimento all’oggetto, possono essere conferiti in trust, non solo dei legal estates (ad es. il diritto di proprietà su un immobile), ma anche qualunque altro tipo di diritto, ivi inclusi i diritti di credito. Si tratta, tuttavia, pur sempre, di beni presenti, non potendo costruire oggetto di conferimento un bene futuro.
Quanto alla durata, essa è determinata in linea di principio dal settlor nell’atto istitutivo e, in linea di massima, non può essere perpetua, fatta eccezione per i trust di scopo, negli ordinamenti che lo ammettono.
Occorre distinguere l’atto istitutivo del trust dal negozio traslativo dei beni oggetto di conferimento.
L’atto istitutivo è il negozio di carattere programmatico con cui il settlor enuncia il programma negoziale, procede alla nomina del trustee, cui affida l’attuazione di detto programma, e individua i beneficiari. Si tratta di un negozio unilaterale recettizio, a cui il trustee non prende parte. Perché sorga in capo a questi l’obbligo di amministrare e perseguire lo scopo indicato, è necessaria la sua formale accettazione dell’incarico, ma questa non determina in ogni caso l’assunzione della qualità di parte dell’atto istitutivo (che non ha, pertanto, natura contrattuale).
L’atto costitutivo può essere inter vivos o mortis causa, è di regola irrevocabile, salvo che sia diversamente stabilito dal disponente.
Successivamente all’atto istitutivo, e in funzione della realizzazione dello stesso, il disponente procede al trasferimento in favore del trustee dei beni oggetto del trust.
L’effetto principale che il trust produce è rappresentato dalla c.d. “segregazione patrimoniale”: i beni conferiti in trust vanno a costituire un patrimonio separato in via definitiva (salvo revoca) dagli altri beni che compongono il patrimonio del trustee, come anche dal patrimonio del disponente (che se ne spoglia definitivamente) e del beneficiario (che ne ha la disponibilità solo alla fine del rapporto fiduciario). Tali beni, da un lato, vengono, formalmente, a far parte del patrimonio del trustee, dall’altro servono, però, per la realizzazione dello scopo indicato dal disponente. Ne discende, come osservato in dottrina, che: a) i creditori personali del trustee non possono sequestrare o pignorare i beni del trust per vicende personali del trustee; b) i beni del trust sono separati dal patrimonio del trustee anche nell’ipotesi di insolvenza o di bancarotta di quest’ultimo; c) i beni del trust non entrano a far parte del regime matrimoniale o dell’asse ereditario del trustee.
Il Trust: Trust e fiducia
La figura del trust rappresenta un’evoluzione del modello romanistico, di tradizione millenaria, della fiducia (negozio fiduciario).
Ne è conferma la stessa etimologia del termine “trust” che, in inglese, assume proprio il significato di fiducia, fede, fidarsi.
Nonostante la derivazione storica e le affinità terminologiche, tra trust e fiducia sussistono, tuttavia, molteplici differenze.
In primo luogo, nella fiducia non si riscontra alcun effetto segregativo analogo a quello che consegue al trust. Nel negozio fiduciario il bene trasferito entra a far parte a tutti gli effetti del patrimonio del fiduciario che è obbligato, solo sul piano personale, a gestirlo nei limiti e per gli scopi indicati nel pactum fiduciae. Il carattere meramente obbligatorio del patto e la sua intrascrivibilità comportano, dunque, che il bene, entrato a far parte a pieno titolo del patrimonio del fiduciario, potrà essere normalmente aggredito dai creditori personali dello stesso. Al contrario, nel trust, il vincolo di destinazione impresso al bene (o ai beni) realizza una vera e propria separazione patrimoniale rispetto al restante patrimonio del trustee, opponibile ai terzi creditori e aventi causa di quest’ultimo.
In secondo luogo, mentre nella fiducia il fiduciario ha un obbligo nei confronti del fiduciante in forza del pactum fiduciae, nel trust, di regola, il trustee ha un obbligo non nei confronti del disponente, ma nei confronti del beneficiario.
La terza caratteristica differenziale rispetto alla fiducia concerne la possibile coincidenza nel trust tra il trustee e il settlor, in modo che un soggetto può decidere di vincolare un bene che già fa parte del suo patrimonio avendo così un unico trasferimento della proprietà, configurandosi, dunque, un modello di fiducia statica. È evidente, quindi, la differenza rispetto al negozio fiduciario, che è caratterizzato dal duplice trasferimento della proprietà secondo il modello della fiducia dinamica.
Infine, la tutela accordata al fiduciante nel nostro ordinamento è meno intensa rispetto a quella che viene riconosciuta al beneficiario nell’ambito del trust. Invero il fiduciante, che perde la proprietà, non essendone più titolare, non ha la possibilità di esercitare le azioni a tutela della proprietà medesima, ma ha solo un diritto al ritrasferimento della stessa. Nondimeno, con riguardo a tale diritto, le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 6 marzo 2020, n. 6459), recentemente espressesi in materia di pactum fiduciae, hanno ritenuto che il patto fiduciario orale è di per sé stesso titolo sufficiente a far sorgere l’obbligo di trasferimento e il diritto del fiduciante di richiedere l’emissione della sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., oltre alla possibilità di attivare solo i rimedi previsti per le ipotesi di inadempimento di un’obbligazione.
Nel trust, invece, il beneficiario è proprietario sostanziale e può esercitare le azioni a tutela della proprietà e, comunque, può vantare un diritto di seguito con chiari connotati di realità.
Sulla fiducia vedi, amplius, il §8.
Il Trust: La Convenzione de L’Aja: il trust internazionale e il trust sostanzialmente interno
Dal 1° gennaio 1992 è entrata in vigore anche in Italia, a seguito della L. 16 ottobre, n. 364, che ne ha autorizzato la ratifica, la Convenzione internazionale relativa alla legge regolatrice dei trust e al loro riconoscimento, firmata a L’Aja il 1° luglio 1985.
La finalità principale della Convenzione de L’Aja è consentire e regolare il riconoscimento dell’efficacia giuridica dei trust costituiti nei paesi anglosassoni (e, più in generale, in tutti gli altri Paesi lo prevedono), da parte dei Paesi (tra cui l’Italia) il cui ordinamento interno, invece, non conosce tale istituto.
Per effetto della ratifica della Convenzione da parte dell’Italia, nel nostro ordinamento trovano, così, senz’altro riconoscimento e possono produrre effetti i trust internazionali, ossia i trust regolati da legge straniera e caratterizzati da significativi elementi sostanziali di internazionalità, perché i beni segregati sono siti all’estero e/o i soggetti coinvolti sono cittadini stranieri o, comunque, residenti all’estero.
La ratifica della Convenzione ha, però, aperto un delicato interrogativo concernente la ammissibilità di trust interni, ovvero di trust che, salvo l’unico elemento di internazionalità costituito dalla legge regolatrice, non presentano altri punti di contatto con ordinamenti esteri, appartenendo i beni segregati e i soggetti coinvolti all’ordinamento italiano.
Un primo e più risalente orientamento dottrinale si è pronunciato negativamente, sulla base di plurime argomentazioni.
In primo luogo, si è sostenuto che la Convenzione de L’Aja sarebbe esclusivamente una norma di diritto internazionale privato, come tale diretta a risolvere potenziali conflitti con l’ordinamento nazionale di fattispecie che presentino collegamenti sostanziali con ordinamenti stranieri. La vocazione esclusivamente internazional-privatistica della Convenzione troverebbe conferma nella previsione dell’art. 13 della Convenzione medesima che esclude l’obbligo di riconoscimento del trust “i cui elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione”. In base a tale articolo, l’Italia non sarebbe tenuta a riconoscere un trust interno, il cui unico elemento di internazionalità è rappresentato dalla legge scelta dal disponente.
In senso contrario all’ammissibilità di trust sostanzialmente interni, opererebbe, poi, il principio del numero chiuso dei diritti reali. Il diritto che si costituisce in capo al trustee è solo formalmente un diritto di proprietà, che per l’essere di fatto spogliato del proprio tradizionale contenuto sostanziale, non potrebbe essere in alcun modo ricondotto al modello del diritto di proprietà previsto dal codice civile.
Ancora, atteso il principio di tassatività degli atti soggetti a trascrizione, il trust interno non sarebbe trascrivibile e, per l’effetto, sarebbe, di fatto, inidoneo ad assolvere alla propria funzione, non potendo produrre un effetto segregativo opponibile ai terzi.
Infine, si adduce il principio di ordine pubblico di unità e tendenziale indivisibilità della garanzia patrimoniale generica (art. 2740 c.c.) che è passibile di deroga – attraverso la previsione di patrimoni separati – solo in casi eccezionali e previsti dalla legge.
L’indirizzo sin qui esposto è stato ormai definitivamente superato dalla dottrina e dalla giurisprudenza del tutto prevalenti, secondo cui, a seguito della ratifica della Convenzione de L’Aja, il trust interno ha trovato piena cittadinanza nel nostro ordinamento.
Si rileva, in proposito, che, come emerge chiaramente dai Lavori Preparatori, la Convenzione de L’Aja non è solo una legge di diritto internazionale privato che regola il riconoscimento in Italia di fattispecie sostanzialmente straniere, ma, altresì, una legge di “diritto sostanziale uniforme” (o di armonizzazione sostanziale) che amplia l’autonomia negoziale dei privati anche negli ordinamenti non trust.
Né possono trarsi argomenti contrari dalla disposizione dell’art. 13 della Convenzione. Tale norma, infatti, non si riferisce allo Stato-legislatore, legittimandolo a porre un divieto astratto e assoluto ai trust interni, bensì, al singolo giudice nazionale, che non è tenuto a riconoscere il trust interno allorché, a valle di un giudizio in concreto e caso per caso, ritenga che la causa sottesa all’operazione sia illecita o, comunque, non meritevole di tutela.
In altri termini la norma, implicitamente presupponendo la generale ammissibilità del trust interno, lo assoggetta a un controllo di liceità causale ulteriore rispetto a quello di coerenza con i principi di ordine pubblico ex art. 15, legittimando il giudice del caso concreto (che a tale controllo provveda) a non ammetterne il riconoscimento ogniqualvolta l’operazione complessiva risulti diretta a realizzare uno scopo illecito o, comunque, non persegua interessi meritevoli di tutela. Nonostante un isolato, contrario pronunciamento della Corte di Cassazione (Cass. 19 aprile 2018, n. 9637) secondo cui il trust sarebbe un istituto di per sé meritevole di tutela, in quanto la valutazione di tale meritevolezza sarebbe stata compiuta a monte e in astratto dal legislatore con la L. 364/1989 di ratifica della Convenzione de L’Aja, deve ritenersi, infatti, che il riconoscimento del trust possa avvenire solo a valle di una verifica in concreto della sussistenza di una adeguata e apprezzabile giustificazione causale.
Ancora, si osserva che escludendo l’ammissibilità del trust interno, si produrrebbe un’inaccettabile e ingiustificata disparità di trattamento rispetto a situazioni del tutto analoghe: la costituzione di trust su un medesimo bene sito in Italia sarebbe, paradossalmente, possibile per i cittadini stranieri e non, invece, per i cittadini italiani.
Non vale, poi, addurre in senso contrario il principio del numerus clausus dei diritti reali. Il diritto che si costituisce in capo al trustee, infatti, non rappresenta una nuova figura di diritto reale del tutto estranea e incompatibile con il modello legale del diritto di proprietà, ma è, piuttosto, una forma di proprietà contenutisticamente atipica. I limiti funzionali cui è soggetto il trustee nella gestione del bene non sono, cioè, tali da far fuoriuscire il diritto dallo schema fondamentale della proprietà codicistica, ma, nel sostanziale rispetto di quest’ultimo, ne determinano una peculiare articolazione contenutistica, senz’altro legittima anche sul piano costituzionale (art. 42, comma 2, Cost., “funzione sociale” della proprietà), ove volta a perseguire finalità non incompatibili con le esigenze e gli interessi della collettività.
Ancora, deve ritenersi ormai priva di qualsiasi valore dirimente l’argomentazione che fa leva sul principio generale di tendenziale unicità e universalità della garanzia patrimoniale generica. A fronte del progressivo moltiplicarsi delle deroghe all’art. 2740 c.c. – basti pensare ai recenti fenomeni delle società unipersonali e delle SIM – pare ormai indiscutibile che nel nostro ordinamento sia in corso, da tempo, un processo tendente al superamento del principio di universalità del patrimonio e alla sua sostituzione con un principio di specializzazione della responsabilità patrimoniale, che contempla la scindibilità dell’unità del patrimonio in una pluralità di masse patrimoniali, ciascuna delle quali costituisce la garanzia di quei soli creditori le cui ragioni di credito siano coerenti con le finalità cui la massa stessa è destinata (Amadio-Macario).
Infine, non vale nemmeno considerare il principio di tassatività degli atti soggetti a trascrizione. Ciò per due ordini di ragioni. Innanzitutto, la trascrizione del trust risulta possibile già in base all’art. 12 della L. di ratifica n. 364/1989 che consente al trustee di chiedere l’iscrizione nei registri immobiliari facendo risultare la sua qualità. Una volta ritenuto che, per effetto di tale legge (come norma di diritto sostanziale uniforme), abbia trovato ingresso nel nostro ordinamento anche il trust interno, la sua trascrizione ha dunque, senz’altro, una base normativa esplicita e specifica proprio in tale legge. Ad ogni modo, come noto, il principio di tassatività degli atti soggetti a trascrizione è ormai universalmente inteso in senso elastico, avendo riguardo non già alla tipologia di atto, ma agli effetti che l’atto stesso produce. Orbene, a seguito dell’introduzione dell’art. 2645ter c.c. che ammette la trascrizione di atti di destinazione, anche il trust, che produce un analogo effetto destinatorio, deve ritenersi passibile di trascrizione.
Il Trust: Rapporti tra trust e art. 2645ter c.c.: il trust puramente interno
Definitivamente ammesso – secondo l’indirizzo ormai del tutto prevalente – il trust sostanzialmente interno, la dottrina ha dibattuto in ordine alla possibilità che il trust assuma la veste del negozio di destinazione ex art. 2645ter c.c. Si verrebbe a configurare, per tal via, una terza figura di trust a carattere puramente interno, sia dal punto di vista degli elementi sostanziali della fattispecie (perché i beni conferiti sono siti in Italia e i soggetti coinvolti sono parimenti cittadini italiani), sia dal punto di vista della disciplina regolatrice.
Una parte della dottrina appare scettica, evidenziando plurimi profili di eterogeneità tra il modello del negozio di destinazione di cui all’art. 2645ter c.c. e quello del trust, così come delineato dalla Convenzione de L’Aja:
— mentre, come si è visto al precedente §3.1, il negozio di destinazione può essere statico, il trust definito dalla Convenzione ha carattere sempre dinamico, implicando il trasferimento della titolarità dei beni che ne costituiscono oggetto dal disponente al trustee;
— mentre il trust può essere di mero scopo, il negozio di destinazione deve avere necessariamente dei beneficiari determinati;
— mentre il negozio di destinazione, per espressa previsione dell’art. 2645ter c.c., è sempre e necessariamente temporaneo, il trust, sia pure in casi eccezionali e residuali, può avere carattere perpetuo;
— mentre nel negozio di destinazione la figura del gestore è puramente eventuale, nel trust essa (il trustee) è il fulcro dell’intera operazione;
— mentre il negozio di destinazione richiede una causa rafforzata, dovendo perseguire interessi socialmente meritevoli o, comunque, non egoistici, altrettanto non vale per il trust, sì come definito dalla Convenzione che ne ammette la stipulazione in vista della realizzazione di “qualsivoglia interesse” (salvi i limiti minimi di ordine pubblico ex art. 15 e, per il trust sostanzialmente interno, il più ampio limite di necessaria liceità della causa);
— mentre il negozio di destinazione richiede la forma pubblica, secondo l’orientamento prevalente, anche ad substantiam (e non solo ai fini della trascrizione), altrettanto non è richiesto dalla Convenzione per il trust;
— mentre nel negozio di destinazione al disponente è riconosciuta la legittimazione ad agire per la tutela della finalità destinatoria, tale azione non è riconosciuta al settlor che, una volta compiuto l’atto di trasferimento dei beni in favore del trustee, esce definitivamente di scena;
— infine, sul piano strutturale, nel negozio di destinazione manca lo sdoppiamento tra atto istitutivo e negozio traslativo dei beni conferiti, che è, invece, caratteristico della fattispecie del trust.
L’opinione prevalente e maggiormente condivisibile ritiene, tuttavia, che i plurimi elementi di eterogeneità sin qui elencati non siano tali da escludere in assoluto che il modello del negozio di destinazione possa essere impiegato per porre in essere un trust, ma, piuttosto, limitino i tipi di trust che possono essere realizzati attraverso il modello dell’art. 2645ter c.c. Si dovrà trattare, cioè, di trust strutturalmente compatibili con il modello formativo del negozio di destinazione, ossia, in particolare, di trust con beneficiari (e non già di scopo), necessariamente temporanei, costituiti in forma pubblica e sorretti da una causa giustificativa rafforzata in quanto diretti a realizzare interessi socialmente meritevoli o, comunque, non egoistici.
Si osserva, infatti che se l’art. 2645ter c.c., quale norma sostanziale di fattispecie, ha introdotto nel nostro ordinamento il modello generale del negozio di destinazione, sarebbe, invero, del tuo paradossale escluderne in modo astratto e assoluto l’utilizzabilità per la realizzazione di un trust che è il negozio destinatario per eccellenza.
Si badi, con ciò non si intende dire che, attraverso la previsione di cui all’art. 2645ter c.c., l’Italia sia diventato un “Paese trust”. A tal fine, infatti, sarebbe necessaria l’introduzione di una norma che specificamente preveda e disciplini l’istituto del trust, dettandone uno statuto compiuto e puntuale secondo le indicazioni di cui all’art. 8, comma 2 della Convenzione de L’Aja: disciplina delle modalità di nomina, revoca e dimissioni del trustee, puntuale disciplina dei poteri e della facoltà di delega a lui spettanti, degli obblighi di rendiconto cui è tenuto, regolamentazione delle modalità di modifica e di cessazione del trust etc. Tale non è, certamente, l’art. 2645ter c.c. che si limita a introdurre lo schema generale del negozio di destinazione, dettandone una disciplina quanto mai scarna, concernente, essenzialmente, la forma, la durata e l’oggetto.
Ciò comporta due rilevanti conseguenze.
In primo luogo, a differenza di quanto vale per i trust internazionali e i trust sostanzialmente interni che trovano nella legge straniera prescelta dal disponente una disciplina compiuta e specifica, nel trust puramente interno costituito secondo il modello dell’art, 2645ter c.c., salve le scarne regole dettate da tale norma, la regolamentazione del negozio, per tutti i restanti profili (precise modalità di gestione, obblighi di rendiconto, revoca e dimissioni del trustee) dovrà essere dettata in via di autonomia negoziale dallo stesso disponente nell’atto istitutivo.
In secondo luogo, resta preclusa l’ammissibilità di un trust internazionale inverso, la possibilità, cioè, che l’art. 2645ter c.c. venga eletto dal disponente come legge regolatrice per la costituzione di trust in altri ordinamenti stranieri “non trust”, ai sensi della Convenzione de L’Aja.
Il Trust: Questioni applicative al vaglio della giurisprudenza e della dottrina
Con riguardo alla figura generale del trust in tutte e tre le sue descritte fenomenologie (trust internazionale, trust sostanzialmente interno e trust puramente interno), si pongono alcune questioni dogmatiche e applicative oggi al vaglio di giurisprudenza e dottrina.
Il Trust: La natura giuridica del diritto del beneficiario
In primo luogo, quanto alla natura giuridica del diritto del beneficiario (o dei beneficiari), la dottrina e la giurisprudenza ritengono necessario distinguere a seconda della tipologia di trust che viene di volta in volta in considerazione.
Se il trust è puramente interno, si tratterà, secondo l’indirizzo dominante (vedi, §5.1), di un diritto di credito, sia pur con profili di realità, in quanto opponibile ai terzi per effetto della trascrizione.
Se, invece, il trust è internazionale o sostanzialmente interno, occorrerà ulteriormente distinguere a seconda della conformazione che a tale negozio viene data dalla legge regolatrice prescelta dal disponente, nonché delle previsioni da quest’ultimo dettate nell’atto istitutivo.
Così, potrà accadere che l’interesse dei beneficiari alla corretta amministrazione dei beni costituiti in trust non integri alcuna posizione attuale di diritto soggettivo ma si atteggi a mera aspettativa assoggettata alle valutazioni discrezionali del trustee nella gestione dei beni medesimi; ovvero, se l’atto istitutivo così prevede, di un vero e proprio diritto soggettivo nei confronti del trustee. In tale ultimo caso, si tratterà, a seconda dei casi, di un diritto reale, assistito da corrispondenti azioni reali, se la legge straniera configura il vincolo destinatario apposto attraverso il trust in termini di vincolo reale, ovvero di un diritto di credito, se la legge straniera (al pari di quella italiana ex art. 2645ter c.c.) configura il vincolo derivante dal trust in termini meramente obbligatori, sia pure con profili di realità in quanto opponibile ai terzi per effetto della trascrizione.
Il Trust: Il controllo causale
L’istituto del trust è ammesso nell’ordinamento interno, purché rispetti il requisito della meritevolezza dell’interesse perseguito ex art. 1322, comma 2, c.c., o se si tratta di un trust interno dal punto di vista anche disciplinare, un interesse “qualificato”, secondo lo schema dell’art. 2645ter c.c.; sarà il giudice ad appurare di volta in volta quale sia il concreto programma che l’istituzione del trust intende perseguire, la sua causa concreta.
La Suprema Corte in una recente pronuncia (Cass. 19 aprile 2018, n. 9637) ha, come visto, affermato che il trust, ove soggetto alla Convenzione Aia, è un istituto di per sé meritevole di tutela, in quanto la valutazione di tale meritevolezza è stata compiuta dal legislatore con la l. 364/1989 di ratifica della Convenzione de L’Aja, con la conseguenza che non è più necessario il giudizio di meritevolezza caso per caso da parte del giudice.
La pronuncia pare valorizzare il dato della meritevolezza “in astratto” del contratto, fondandolo sulla mera tipizzazione da parte della Convenzione de L’Aja dell’istituto del trust internazionale. È, tuttavia, necessario ridimensionare le ricadute pratiche di questa sentenza: per il trust interno, rimane, infatti, l’esigenza che venga effettuata una valutazione anche in concreto al di là della meritevolezza in astratto del contratto tipico. Scopi sicuramente compatibili sono quelli particolarmente meritevoli, omogenei alle ipotesi di patrimoni destinati nel nostro ordinamento, in particolare a beneficio della famiglia o di persone con disabilità grave. Ciò è confermato da una pronuncia del Tribunale Roma (10 Ottobre 2017), in cui un giudice tutelare ha autorizzato un trust sulla scorta del suo riconoscimento quale istituto compatibile con il nostro ordinamento e della specifica meritevolezza degli interessi perseguiti per soggetti con disabilità con l’esplicita finalità di programmare il “Dopo di noi”.
Il Trust: Il regime dell’azione revocatoria
A prescindere dalla tipologia di trust, poi, la giurisprudenza ha chiarito che il trust non ha un’autonoma soggettività giuridica. Le azioni revocatorie ed esecutive eventualmente proposte contro la sua costituzione non vanno, pertanto, notificate al trust, come autonomo soggetto di diritto, ma al trustee, in ragione della titolarità in capo solo a questo del potere di disposizione e di gestione sui beni (Cass., sez. I, 10498/2019).
Con particolare riferimento all’azione revocatoria, la giurisprudenza ha chiarito che, di regola, salvo che la causa concreta non deponga diversamente, il trust è negozio a causa gratuita. Ne consegue, pertanto, che, in tal caso (e sempre che il beneficiario, secondo la legge straniera applicabile, non vanti un vero e proprio diritto reale sui beni costituiti in trust) il giudizio revocatorio non vede il beneficiario come litisconsorte necessario. Posto, infatti, che ai fini della valutazione della gratuità o meno della fattispecie, va considerata la posizione del beneficiario (con riferimento al quale si realizza l’effetto interno del trust, dato dalla scissione tra intestazione e titolarità), e non quello del trustee (non ha, quindi, rilevanza l’aspetto dell’onerosità o meno del mandato, concernete il profilo estrinseco dell’incarico gestorio), il trust andrà considerato oneroso solo ove, in deroga al normale atteggiarsi della figura, l’acquisto implichi un corrispettivo o un onere a carico del beneficiary (si pensi, nel trust come nel negozio di cui all’art. 2645ter, al caso di scopo di garanzia o solutorio o, ancora, al sacrificio corrispettivo derivante da un trust incrociato a parti inverse). In queste ipotesi il beneficiario sarà litisconsorte necessario visto che la revocatoria degli acquisti onerosi richiede, ai sensi dell’art. 2901, la scientia damni o il consilium fraudis a carico dell’acquirente (vedi Parte II, Cap. 6, §6.1.4).
Del pari il beneficiario sarà parte necessaria nel giudizio revocatorio ove, per effetto del trust, egli risulti titolare non solo del generico e insufficiente interesse alla corretta amministrazione del bene, ma di una posizione con carattere di realità sul bene, quale beneficiario di redditi con precisi diritti quesiti
Va ricordato, infine, che, in via innovativa, la Cassazione con la citata Ord. n. 10498/2019, ha reputato possibile che il creditore, dopo la concretizzazione dell’effetto lesivo in forza dell’intervento dell’atto dispositivo di carattere traslativo, possa agire in revocatoria anche nei confronti del solo negozio istitutivo, trattandosi dell’atto causale rispetto al quale l’atto successivo è conseguente e dipendente, con conseguente soggezione automatica di quest’ultimo alle ripercussioni della revocatoria dell’atto a monte in base al principio simul stabunt simul cadent. La soluzione – innovativa rispetto a Cass. III, 19376/2017 che aveva escluso in radice la revocabilità dell’atto dispositivo, in quanto puramente programmatico e meramente obbligatorio – suscita perplessità in quanti osservano che, ai fini della revocatoria, dovrebbe avere rilievo non l’atto causale ma quello che, pur se solutorio, produce l’effetto lesivo dell’integrità patrimoniale del debitore.
Il Trust: Il trust in un condominio: il regime delle spese condominiali
Allorché una unità immobiliare compresa in un condominio edilizio sia stata conferita in un “trust” traslativo, l’amministratore condominiale, a norma degli artt. 1123 c.c. e 63 disp. att. c.c., può riscuotere “pro quota” i contributi per la manutenzione delle cose comuni e per la prestazione dei servizi nell’interesse comune direttamente ed esclusivamente dal “trustee”. Ciò in quanto costui è divenuto titolare della proprietà dell’immobile ed è perciò tenuto, in quanto tale, a sostenerne le spese, senza che rilevi che venga o meno evocato in giudizio in tale qualità, non essendo questi un rappresentante del “trust” (Cass. 2 febbraio 2023, n. 3190).
Il Trust: La trascrizione del trust
Con riguardo, infine, alle modalità di esecuzione della formalità pubblicitaria della trascrizione atta a consentire il prodursi dell’effetto segregativo, l’orientamento prevalente ritiene che, ogniqualvolta (come di regola) l’atto istitutivo sia distinto rispetto al negozio traslativo dei beni conferiti, sia necessario procedere a una duplice trascrizione: una trascrizione contro il disponente e a favore del trustee, per quanto attiene al negozio e, dunque, all’effetto traslativo dei beni conferiti; un’altra trascrizione contro il trustee e a favore dei beneficiari (se ci sono) o, in mancanza, a favore dello stesso trust (che verrebbe, a questi soli fini, equiparato a un soggetto di diritto), per quanto attiene all’effetto destinatorio. Un orientamento del tutto minoritario ritiene, invece, che sia sempre sufficiente procedere a un’unica trascrizione contro il disponente e a favore del trust