Il Decreto Legge Cutro 20 2023, convertito dalla L. 50/2023, presenta rilevanti novità.
In specie, si deve osservare che taluni profili della riforma hanno destato non poche perplessità da parte della dottrina.
In primo luogo, la legge ha espunto la protezione di carattere sussidiario complementare, come si evince dalla soppressione del secondo e terzo periodo dell’art. 19, comma 1, punto 1, i quali si riferivano proprio alle protezioni finalizzate alla tutela della continuità dei rapporti familiari e sociali. Si tratta, a ben vedere, di una soluzione che potrebbe porre problemi di compatibilità con l’art. 8 della CEDU, posta la rilevanza primaria che la tutela del diritto alla vita privata e familiare assume nell’ordinamento sovranazionale.
Un secondo elemento, sul quale occorre soffermarsi, attiene a un aspetto più strettamente processuale. Come già evidenziato, tutti i provvedimenti che riguardano gli stranieri (respingimenti, espulsioni, permessi di soggiorno) devono conoscere il giusto processo; devono, cioè, essere caratterizzati da un vaglio giudiziario, davanti a un giudice imparziale; è necessario che si tratti di un vaglio effettivo, appropriato, all’esito di un giusto processo, caratterizzato dal contraddittorio e dal diritto di difesa (art. 6 CEDU). Quindi, i respingimenti, lungi dall’inquadrarsi quali meri comportamenti materiali di impedimento all’ingresso in Italia, devono essere considerati provvedimenti giuridici di espulsione: ne discende che il momento storico in cui sono adottati, immediatamente dopo il salvataggio, non toglie che essi debbano seguire pienamente le regole del giusto processo, tra cui il diritto di difesa, la partecipazione personale del soggetto al giudizio e, dunque, il contraddittorio effettivo, in ossequio all’art. 111 Cost.
Ciò posto, l’art. 7bis, con riferimento alla protezione internazionale, estende i casi in cui il ricorso avverso l’atto di diniego, adottato da parte della commissione territoriale, non abbia natura sospensiva, impedendo, cioè, la sospensione dell’esecuzione materiale del rimpatrio, prima della decisione del giudice. La L. 50/2023 (che ha convertito il Decreto Legge Cutro), dunque, ha esteso il novero dei casi in cui al provvedimento viene negata natura sospensiva, ricomprendendo tutti i casi in cui, in particolare, si tratta di un diniego ripetuto, che segue precedenti dinieghi.
È evidente, allora, che l’ampliamento delle ipotesi di ricorso a cui non consegua un effetto sospensivo si pone in contrasto con le regole del giusto processo: ne deriva l’elisione o, quanto meno, la sensibile limitazione dell’utilità della prosecuzione stessa del processo, dal momento che il rimpatrio si è già consumato.
Occorre soffermarsi, inoltre, anche su di un ulteriore profilo dell’art. 7bis, secondo il quale l’istanza di sospensione deve essere proposta, a pena di inammissibilità, con il ricorso introduttivo: si nega, cioè, la possibilità che l’istanza di sospensione sia proposta separatamente dal ricorso, in un momento successivo, com’è prassi nel processo, sia civile che amministrativo.
La dottrina, sotto tale profilo, ha escluso che si possa dare una giustificazione a una tale statuizione, per cui un dato meramente formale, quale l’inserimento della istanza all’interno del ricorso o separatamente, sia in grado di produrre un effetto esiziale di definitiva inammissibilità, generando un effetto sanzionatorio che appare sproporzionato rispetto al tipo di violazione processuale, specie nel campo dei diritti fondamentali della persona.
Procedendo nell’analisi della riforma, ulteriore tema è quello riguardante l’art. 7quinquies che, a proposito delle procedure semplificate per i ricorsi pendenti, stabilisce che l’istanza priva della documentazione di cui al comma 3 è dichiarata inammissibile, con ordinanza non impugnabile.
Tale previsione, secondo la dottrina critica, è censurabile sotto plurimi profili: sotto un primo profilo, nella misura in cui qualifica la mancanza di documentazione come causa di inammissibilità astratta, senza procedere a un’indagine sulle ragioni o sulla imputabilità o meno nella mancanza della documentazione. L’interpretazione razionale della norma pretenderebbe che l’irrogazione della sanzione si limitasse ai soli casi in cui la mancanza di documentazione sia imputabile a colpa, avendo il soggetto la disponibilità dei documenti necessari. Ciò che ha, però, destato le più consistenti perplessità della dottrina, attiene al secondo profilo, e cioè alla non impugnabilità dell’ordinanza: stabilire che un provvedimento, il quale disciplina la materia dei diritti fondamentali della persona, non sia impugnabile, significa, infatti, delineare una soluzione contrastante con i principi costituzionali. In specie, è evidente la frattura con l’art. 111 Cost., che stabilisce che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbano essere motivati e siano tutti passibili di ricorso in Cassazione. Se, dunque, ci si soffermasse sul solo dato letterale, il legislatore avrebbe inteso impedire al ricorrente la proposizione del ricorso sia in appello che in Cassazione, con evidente incostituzionalità del dettato normativo. Bisognerebbe, allora, ricorrere all’interpretazione conforme, contraria alla lettera, sostenendo che la norma preclude il ricorso in appello, ma non certamente quello in Cassazione.
Infine, non può tacersi circa le novità, di natura penalistica, introdotte dall’art. 8 della legge 50/2023 (che ha convertito il Decreto Legge Cutro), il quale, oltre ad aggravare la pena per l’art. 12, commi 1 e 3, del T.U. dell’immigrazione, con riferimento al delitto di favoreggiamento dell’immigrazione, di mera condotta a forma libera, introduce l’art. 12bis, che prevede un nuovo reato, di morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina.
Il reato enucleato presenta interessanti profili descrittivi. Innanzitutto, si tratta di un reato comune, in quanto potenzialmente integrabile da chiunque organizzi e diriga il traffico di migranti che culmini nella morte o nelle lesioni; inoltre, si tratta di un reato universale, come si evince dal dato per cui la legge prevede che esso possa essere perseguito dal giudice italiano, indipendentemente dal luogo in cui si trova o tiene una parte della condotta (comma 6). In terzo luogo, il reato di base è costituito da un reato di pericolo. Infatti, ciò che risulta imputabile è la conseguenza mortale di una condotta pericolosa, quale il trasporto o l’ingresso attuati con modalità pericolose per l’incolumità personale o di carattere degradante; infine, si tratta di un delitto a più fattispecie, il quale integra la fisionomia di un reato complesso ai sensi dell’art. 84 c.p.
Quanto finora evidenziato consente di sostenere che si tratti di un reato aggravato dall’evento, e in particolare di un’applicazione dell’art. 586 c.p. Al pari del 586, infatti, l’operatività della nuova fattispecie delittuosa è subordinata alla sussistenza di due requisiti: il primo attiene alla necessità che l’evento mortale non sia voluto, neanche sul piano del dolo eventuale (si badi che si tratta un tema assai discusso quello dell’addebito a titolo di dolo eventuale o alternativo); Il secondo elemento è quello declinato dalle SSUU Ronci del 2009: la conseguenza deve essere non voluta, ma colposa, e la colpa non può essere una colpa di carattere penale, e cioè astratta, quale mera violazione della norma incriminatrice, ma deve trattarsi di colpa cautelare, una colpa in concreto.
Occorre ribadire ancora che la nuova ipotesi di reato di cui all’art. 12bis TUI delinea un’applicazione speciale dell’art. 586 c.p.: se l’art. 586 inquadra la morte come conseguenza non voluta di altro reato doloso, la nuova fattispecie descrive un’ipotesi in cui la morte discende come conseguenza non voluta di una categoria specifica di reati, delitti in materia di immigrazione clandestina. È chiaro, allora, che si tratti di una norma speciale, prevalente sulla norma generale, di cui all’art. 586 c.p.
In chiusura rispetto agli elementi qualificanti, la norma esibisce peculiari tratti in forza della previsione, al comma 4, di una circostanza attenuante, la quale risulta, ad ogni modo, valutabile solo dopo l’applicazione integrale delle aggravanti previste in precedenza. In conclusione, ulteriori profili critici sono evincibili sotto il profilo del principio di proporzionalità della pena. Ciò in quanto la pena declinata presenta notevoli picchi di gravità, prevedendosi, per l’ipotesi di una morte plurima, paradigmi edittali compresi tra i 20 e i 30 anni; nelle ipotesi immediatamente meno gravi, tra i 15 e i 24 o da 10 a 20 anni se non muore nessuno. Dunque, se è vero che il presupposto della norma si erige sul carattere non doloso dell’evento mortale, e se è vero che il presupposto della norma appare, piuttosto, il carattere colposo dell’evento mortale, si tratta, ad ogni modo, di un’ipotesi di omicidio colposo plurimo. Allora, prevedere per un omicidio colposo plurimo, o addirittura per delle lesioni colpose, una pena di una tale gravità, tale da presentare profili accomunabili all’omicidio doloso, piuttosto che non all’omicidio colposo, rappresenta una soluzione che, dal punto di vista della proporzionalità della pena, enuclea profili di innegabile criticità.
Il Decreto Legge Cutro – *Contributo estratto dal Manuale Ragionato di diritto amministrativo Parte Speciale di Francesco Caringella e Olga Toriello- Dike Giuridica 2023 – Il Decreto Legge Cutro 20 del 2023 (conv. dalla L. 50/2023): la protezione internazionale e le novità del decreto, criticità e potenziali profili di incostituzionalità, pagg. 457 e ss.