I principi generali del processo amministrativo: Il «giusto processo» amministrativo
Il processo amministrativo è soggetto al principio costituzionale del c.d. “giusto processo” [1]. Si tratta di un principio generale – una formula aperta capace di sintetizzare una pluralità mobile di valori e sotto-principi –, previsto all’art. 111 Cost., che, mutuando le statuizioni dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (riscontrabili in numerose disposizioni dell’ordinamento italiano), stabilisce che:
– la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge;
– la disciplina del processo è assistita da riserva di legge;
– ogni processo è caratterizzato dal contraddittorio tra le parti;
– le parti devono trovarsi in condizioni di parità;
– il giudice deve essere terzo ed imparziale;
– la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo.
Benché riferito al processo penale, l’art. 111 Cost. riverbera i suoi effetti su tutti i processi dato che la portata delle norme costituzionali investe l’intero ordinamento.
A livello di normazione primaria, il principio in esame è contemplato negli artt. 1 e 2 c.p.a., che estendono il principio del giusto processo ed i suoi corollari al giudizio amministrativo.
L’art. 1, dispone che “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”. L’art. 2 garantisce l’attuazione dei principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall’art. 111 Cost. La norma, ancora, pone a carico del giudice e delle parti (per le quali vige il principio di parità ed eguaglianza) l’obbligo di cooperazione per la realizzazione della ragionevole durata del processo. In conformità al richiamato principio del giusto processo, la giurisprudenza amministrativa ha statuito che “vanno privilegiate, nell’interpretazione delle norme processuali, le soluzioni che agevolino la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini”[2].
I suddetti principi sono stati recepiti in diversi istituti dell’impianto codicistico, ove si prevede che, ai fini della validità della domanda giudiziale proposta dal privato avverso un atto dell’Amministrazione, il ricorso deve essere notificato tanto all’organo che ha emesso l’atto impugnato quanto ai controinteressati che siano individuati nell’atto stesso, o almeno ad uno di essi, salvo l’obbligo di integrare il contraddittorio a mezzo di ulteriori notifiche agli altri controinteressati, che siano ordinate dal giudice (artt. 27, 41 e 49 c.p.a.); la mancata notifica, infine, rende il ricorso inammissibile.
Ulteriore questione posta dall’applicazione del principio del «giusto processo» al giudizio amministrativo riguarda la terzietà e l’imparzialità del giudice: a questo tema risulta strettamente legata la tematica dell’indipendenza del giudice.
Secondo la Corte costituzionale[3] i principi di indipendenza, di terzietà e di imparzialità del giudice sono «elementi essenziali alla stessa intrinseca natura della giurisdizione, che si identifica nella indipendenza istituzionale del giudice e nella sua posizione di terzo imparziale, qualunque siano le parti in giudizio, compresa la pubblica amministrazione».
La Costituzione, in linea generale, sancisce l’indipendenza di ogni giudice (artt. 101, ultimo comma, e 108, ultimo comma, Cost.) e, con particolare riferimento al Consiglio di Stato e alla Corte dei Conti, prevede che «la legge assicura l’indipendenza dei due Istituti e dei loro componenti di fronte al Governo» (art. 100, ultimo comma, Cost.).
Tra gli elementi maggiormente innovativi della riforma dell’art. 111 Cost. vi è il principio per cui la legge deve assicurare una durata ragionevole del processo (cfr. art. 2, c.p.a.).
L’esigenza che il processo conosca una ragionevole durata è avvertita in modo particolarmente intenso in quello amministrativo, rivelandosi funzionale non solo alla tutela delle parti del giudizio ma anche alla certezza ed all’efficacia dell’azione amministrativa: infatti, la tutela dell’interesse pubblico (cui deve sempre mirare l’azione della P.A.) impone tempi certi e brevi per la proposizione del ricorso e per la definizione della controversia[4].
Sono da inquadrare in questa prospettiva, le scelte del legislatore che ha previsto la possibilità di un rito abbreviato alternativo per determinate materie (art. 119 c.p.a.), nonché la possibilità di decisioni in forma semplificata (art. 74 c.p.a.) e l’introduzione di procedimenti sommari di condanna al pagamento di somme pecuniarie (art. 118 del c.p.a.).
Va rilevato che, anche nel giudizio amministrativo trova applicazione la L. 24 marzo 2001, n. 89, introdotta col precipuo obiettivo di dare concreta attuazione al principio della ragionevole durata del processo. In particolare, è stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in capo al soggetto che abbia subito un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale, derivante dal mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, ai sensi di quanto stabilito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. 4 agosto 1955, n. 848.
Ulteriore corollario del principio del giusto processo è l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali: l’art. 111, comma 6, Cost., infatti, dispone che «Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati»; norma recepita nel codice dall’art. 3 c.p.a.).
Come è evidente, il destinatario di questo obbligo è il giudice: in particolare, a questi è imposto l’obbligo di corredare la propria pronuncia (sentenza, ordinanza, decreto) con una specifica motivazione, idonea a rendere chiare le ragioni che sostengono la propria decisione.
L’obbligo di motivazione è stato, infatti, esteso alle ordinanze cautelari (art. 55, comma 9, c.p.a.), e la generalizzazione della possibilità di richiesta e di utilizzo dei decreti presidenziali cautelari a seguito dell’entrata in vigore degli artt. 56 e 61 c.p.a. ha fatto sì che siano corredati da motivazione.
Non va dimenticato che il principio della necessaria motivazione dei provvedimenti decisori del G.A. deve contemperarsi con quello della sinteticità e chiarezza degli atti richiamato dall’art. 3, comma 2, c.p.a., quale corollario della effettività e ragionevole durata del processo. A riprova di ciò l’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a. prevede che la sentenza debba contenere “la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi”.
Occorre ricordare, infine, il principio del doppio grado di giurisdizione, attuato nel processo amministrativo soltanto in seguito all’istituzione dei tribunali amministrativi regionali (avvenuta per effetto della L. 1034/1971).
Come ha più volte riconosciuto la Corte costituzionale, esso poggia sull’art. 125 Cost., in base al quale «Nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica.
I principi generali del processo amministrativo: Il principio del divieto di abuso del processo
Ad avviso della più recente giurisprudenza, anche nel diritto amministrativo, opera il duplice divieto di abuso del diritto e del processo; divieto che, ai sensi dell’art. 2 Cost., dell’art. 1175 c.c. e dell’art. 88 c.p.c., sanziona le condotte sostanziali e i comportamenti processuali non jure di esercizio del diritto.
Secondo tale principio generale, il titolare del diritto soggettivo può esercitarlo secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; tuttavia, tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della sua cornice legislativa, non deve svolgersi secondo modalità contrarie al principio di correttezza e buona fede o di lealtà e probità e non deve dar luogo, a causa di tali modalità, ad una sproporzione ingiustificata tra l’eventuale beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. Correttezza e buona fede (come lealtà e probità) governano il rapporto sostanziale e processuale, evitando di ritenere lecito ogni comportamento solo in quanto nessuna norma lo vieta e facoltativo ogni comportamento che alcuna norma rende obbligatorio.
In applicazione di esso, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che, alla stregua del principio del divieto di abuso del processo, precipitato del più generale divieto di abuso del diritto e della clausola di buona fede, deve considerarsi inammissibile il motivo di impugnazione con il quale il ricorrente contesti la giurisdizione da lui stesso adita al fine di ribaltare l’esito negativo nel merito del giudizio, ponendosi una siffatta prospettazione in palese contrasto con il divieto del venire contra factum proprium e con la regola generale prevista dall’art. 1175 c.c.[5].
Ulteriori applicazioni del principio del divieto di abuso del processo si sono avute in materia risarcitoria[6] e di tutela cautelare.
Per una prima e reale codificazione di una fattispecie denominata “abuso del processo” nell’ambito del giudizio amministrativo, si è dovuto tuttavia attendere il D.L. 24 giugno 2014, n. 90.
Nello specifico, ai sensi dell’art. 41, comma 1, lett. a), D.L. 90/2014, il Legislatore ha chiosato con un inciso finale il comma 1 dell’art. 26 c.p.a., per cui “in ogni caso, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati”.
Il secondo periodo del comma 2 dell’art. 26 c.p.a., prevede che nei contenziosi inerenti agli appalti pubblici “l’importo della sanzione pecuniaria può essere elevato fino all’uno per cento del valore del contratto, ove superiore al suddetto limite”.
In sintesi, si istituisce una fattispecie sanzionatoria amministrativa denominata “abuso del processo” ricollegandovi una nuova sanzione, e incrementando l’importo – per il solo settore del contenzioso appalti – di quella già esistente per lite temeraria; il tutto con lo scopo – come individuato dalla Relazione tecnica allegata al disegno di legge di conversione – di “contrastare la proliferazione di controversie pretestuose o defatigatorie”.
La novella lascia, in primo luogo, taluni dubbi in rapporto all’analoga disposizione (peraltro richiamata dallo stesso art. 26, comma 1, c.p.a.) contenuta all’art. 96 c.p.c. (rubricato “Responsabilità aggravata”). La differenza tra le due disposizioni risiede nella precisazione che la sanzione per abuso di processo potrà essere comminata dal G.A. solo in ipotesi di “motivi manifestamente infondati”.
Tuttavia, tale precisazione, non accompagnata da una chiara individuazione dei presupposti al verificarsi dei quali possa essere integrata la fattispecie dell’abuso, scattando di conseguenza la sanzione, rende l’art. 26, comma 1, ultimo inciso, c.p.a.: i) o una disposizione superflua, visto il già esistente rinvio all’art. 96 c.p.c. contenuto nel primo inciso; ovvero ii) una disposizione che si espone al rischio di incostituzionalità per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 113 Cost., arrivando a configurare un’ipotesi di responsabilità oggettiva, per cui il convincimento assolutamente discrezionale (se non arbitrario) del giudice relativamente all’infondatezza dei motivi sottoposti al suo vaglio sarebbe condizione da sola necessaria e sufficiente per l’applicazione della sanzione.
In secondo luogo, quanto al novellato comma 2 dell’art. 26 c.p.a., questo pone due ordini di questioni. Per un verso, non sembrano sussistere ragioni giuridiche per differenziare l’importo della sanzione applicabile al rito appalti, rispetto al quantum previsto per gli altri riti processuali dinanzi al G.A. Tale considerazione vale a maggior ragione se si tiene conto che il parametro base della sanzione in parola è l’importo del contributo unificato versato; del resto, la notevole differenza del contributo unificato previsto per il rito di cui all’art. 120 c.p.a. già assicurava al giudice un più elevato margine di condanna. Per l’altro, la disposizione rinvia genericamente a tutti i casi di giudizi ex art. 120 c.p.a.; in via esemplificativa, ciò comporta che i diversi parametri di calcolo della sanzione possono applicarsi anche a giudizi inerenti agli atti dell’ANAC, con la conseguenza – e il rischio – di applicare sanzioni per lite temeraria non proporzionate al reale valore e all’oggetto della causa.
In conclusione, la codificazione di una fattispecie di abuso del processo, nonché l’incremento della sanzione per lite temeraria per il processo appalti, paiono inserirsi in quella linea di tendenza che sta segnando gli interventi del Legislatore in ambito processuale degli ultimi anni: l’introduzione di meccanismi di scoraggiamento al ricorso alla giustizia. Tale finalità, in parte, risale alla necessità di alleggerire i ruoli delle giurisdizioni nazionali rendendo più efficiente il sistema giustizia in generale. Del resto, il timore di una giustizia amministrativa paralizzante (soprattutto la realizzazione delle opere pubbliche) sta sempre più divenendo una communis opinio di cui le scelte del Parlamento e del Governo rappresentano solo lo specchio, ed i disincentivi al ricorso al giudice hanno l’unico effetto di diminuire la giustiziabilità delle scelte operate dalle Amministrazioni, favorendo un’area di impunità che non è conforme al diritto costituzionale e agli impulsi che rinvengono dal diritto dell’Unione europea.
I principi generali del processo amministrativo: I principi peculiari del processo amministrativo
E’ ora possibile indagare altri principi del processo amministrativo di matrice più strettamente processuale (artt. 63 e 64 c.p.a).
In particolare, i canoni che regolano il processo amministrativo possono essere inquadrati in due categorie: in una rientrano i principi che governano la promozione, la delimitazione e l’impulso dell’attività processuale (della domanda, della disponibilità della prova secondo il metodo acquisitivo, dell’impulso processuale di parte); nell’altra, sono compresi i principi attinenti al profilo strutturale del giudizio e relativi, più in particolare, al modo in cui si concretizza la funzione giurisdizionale (della concentrazione, della collegialità, della oralità).
Il giudizio amministrativo si instaura a seguito di ricorso della parte, sicché il giudice non può procedere d’ufficio (principio della domanda)[7]: come è evidente, il principio in questione trova la sua giustificazione nel dovere di imparzialità del giudice, in base al quale è necessario che venga assicurata giustizia esclusivamente a chi la richiede (ne procedat judex ex officio).
Nel processo amministrativo, come detto, la domanda giudiziale non è configurabile come vocatio in jus (citazione), ma vocatio judicis (ricorso), con cui si chiede al giudice di provvedere sull’oggetto della richiesta: di conseguenza, il rapporto processuale si instaura non già al momento della notificazione del ricorso alla controparte, ma in quello del suo deposito al Tribunale amministrativo.
La ratio di tale assunto è ancorata alla tesi tradizionale secondo cui oggetto del giudizio è l’atto amministrativo e non il rapporto tra le parti: come più volte sottolineato, questa impostazione è ormai superata alla luce dei recenti interventi legislativi e pretori, che vertono a una nuova lettura del processo amministrativo, alla stregua di un “giudizio sul rapporto” e non più soltanto sull’atto”.
Il giudice amministrativo, inoltre, deve rispettare i limiti della domanda avanzata dalla parte (ne eat judex ultra petita partium), non potendo, ad esempio, annullare un atto per motivi differenti da quelli denunciati[8].
Il thema decidendum viene determinato in base all’atto introduttivo (il ricorso) presentato dalla parte ricorrente.
Questa regola generale incontra due eccezioni: al ricorrente è consentito allargare il thema decidendum proponendo dei motivi aggiunti nel caso eccezionale in cui, per una ragione a lui non imputabile, sia venuto a conoscenza (successivamente alla proposizione del ricorso) di ulteriori vizi dell’atto; l’ampliamento del thema decidendum può, inoltre, avvenire per effetto della proposizione del ricorso incidentale da parte del controinteressato.
Il principio della domanda si coordina con un sistema di formazione del materiale probatorio ispirato al principio dispositivo con metodo acquisitivo, in base al quale al potere dispositivo delle parti è riservato l’onere di offrire il c.d. principio della prova (prospettando al giudice solo un’impostazione, sia pure puntuale e attendibile, ricostruttiva dei fatti e di proiezione giuridica degli stessi), essendo poi rimesso al giudice il potere dovere di acquisire gli elementi istruttori necessari per la definizione del giudizio.
Tale principio è codificato dall’art. 64, comma 1, c.p.a. in forza del quale spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni, potendo il giudice amministrativo disporre, anche d’ufficio, l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della pubblica Amministrazione (art. 64, comma 3, c.p.a.).
Un simile assetto risulta strettamente correlato alla centralità che, nel processo amministrativo, assumono le prove precostituite e, in particolare, i documenti sulla base dei quali il provvedimento impugnato è stato adottato (che sono normalmente in possesso dell’Amministrazione resistente). Al riguardo, la prevalente giurisprudenza ha affermato che i poteri istruttori, esercitabili d’ufficio, di cui dispone il G.A. rispondono principalmente allo scopo di evitare che l’inerzia processuale della P.A. resistente vanifichi la possibilità di difesa del ricorrente (il quale, di norma, non è in grado di accedere direttamente al materiale probatorio e, quindi, di fornire piena prova dei fatti che deduce o anche solo di articolare compiute richieste istruttorie) e comporti un vulnus all’effettività della tutela giurisdizionale.
Va peraltro rilevato che il metodo acquisitivo e l’ascrizione in capo al privato del mero onere di un principio di prova (ora elementi di prova ai sensi dell’art. 64, comma 1, c.p.a.) tendono ad attenuarsi, alla luce dei principi del contraddittorio procedimentale e dell’accessibilità dei documenti amministrativi (v. Parte III, Capp. 2 e 5), che consentono al privato di avere piena contezza dei fatti da provare prima del processo; e, soprattutto, nel campo della tutela risarcitoria, ove la conoscenza da parte del solo privato dei profili di danno patiti rende ragionevole l’applicazione del principio dispositivo secco.
Nel processo amministrativo vige poi il principio dell’impulso processuale di parte: il giudizio, infatti, prosegue solo in forza dell’iniziativa delle parti. A titolo esemplificativo, si consideri che dopo il deposito del ricorso occorre la domanda di fissazione di udienza, pena la perenzione del ricorso stesso (art. 71, comma 1, c.p.a.). Più in generale, l’inerzia della parte che si protragga oltre un anno provoca la perenzione del ricorso; l’art. 81, c.p.a. ha introdotto l’attuale termine di perenzione annuale in luogo del precedente termine di due anni previsto dalla disciplina previgente.
Occorre adesso volgere lo sguardo a quei principi attinenti al profilo strutturale del giudizio.
Tradizionalmente si ritiene che rientri in tale ambito il principio del contraddittorio, in quanto idoneo a descrivere la posizione reciproca delle parti nel processo: come già rilevato, tuttavia, l’importanza che la Costituzione assegna a detto canone, induce a considerarlo principalmente come un corollario del principio del giusto processo (artt. 2 e 27 c.p.a.).
I principi relativi alla struttura del processo che in questa sede si analizzano, invece, sono quelli idonei a descrivere il modo in cui si concretizza la funzione giurisdizionale.
Sotto tale aspetto, in primo luogo viene in rilievo il principio della concentrazione, in virtù del quale il giudizio viene trattato in una unica udienza anche se, potendo la decisione essere parziale o istruttoria, può seguire la prosecuzione dell’iter processuale.
Strettamente connesso con la concentrazione è il principio della collegialità, in base al quale la trattazione della causa si svolge davanti al collegio: il principio descrive la posizione di rilievo che assume il collegio in ordine alle attività di guida sostanziale (esso ha il potere di decidere anche le controversie accessorie rispetto a quella principale) e di guida formale del processo (potendo esso ordinare, ad esempio, la riunione dei ricorsi); viceversa, al presidente del collegio sono conferiti limitati poteri ordinatori e istruttori ed eccezionali poteri cautelari (si pensi alla tutela monocratica, disciplinata dall’art. 56 c.p.a.).
Infine, rileva il principio della oralità, in base al quale la causa viene trattata oralmente in pubbliche udienze, salvo i casi dei procedimenti celebrati con rito camerale (art. 87 c.p.a.).
[1] I principi generali del processo amministrativo NOTA: Cfr., fra le pronunce più recenti che vi fanno richiamo, Cons. Stato, sez. III, 6 maggio 2021, n. 3534, T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sez. I, 2 marzo 2021, n. 68; Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2021, n. 1636.
[2] I principi generali del processo amministrativo NOTA: C.G.A. Sicilia, sez. giurisdiz., 11 dicembre 2017, n. 544.
[3] I principi generali del processo amministrativo NOTA: Corte cost. 17 luglio 2002, n. 353.
[4] I principi generali del processo amministrativo NOTA: Da qui, ad esempio, la recente statuizione del Giudice amministrativo – Cons. Stato, sez. II, 6 maggio 2021, n. 3543 – tale per cui: “La parte che abbia adito la giurisdizione amministrativa con l’atto introduttivo del giudizio non è legittimata a contestarla attraverso l’eccezione di difetto di giurisdizione in appello, perché tale contraddittoria condotta integra un abuso del diritto di difesa, dettato da mere ragioni opportunistiche ed in contrasto con il dovere di cooperazione per la realizzazione della ragionevole durata del processo sancita dall’art. 2, comma 2, c.p.a”.
[5] I principi generali del processo amministrativo NOTA: Le Sezioni unite (Cass. S.U. 19 giugno 2014, n. 13940), seguite dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. V, 9 marzo 2015, n. 1192), hanno stabilito che non costituisce abuso del diritto la condotta di parte avente a oggetto la contestazione della giurisdizione dalla stessa adita “mediante motivo d’appello ai sensi dell’art. 9 del codice del processo di cui al D.Lgs. 104/2010, in una controversia in cui il dubbio obiettivamente si poneva ed in relazione alla quale scaturiva quindi una necessità di chiarimento sulla questione di giurisdizione”. Quindi dinanzi ad un ragionevole dubbio sulla giurisdizione, si esclude che l’eccezione relativa al difetto di giurisdizione integri un abuso del processo. Con sent. 20 ottobre 2016, n. 21260, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, risolvendo un complesso contrasto giurisprudenziale, ha rilevato che, dinanzi ad una sentenza di rigetto della domanda, non è ravvisabile una soccombenza del ricorrente anche sulla questione di giurisdizione perché la statuizione sulla giurisdizione costituisce un autonomo “capo” della sentenza, con la conseguenza che in relazione ad esso il ricorrente va considerato a tutti gli effetti vincitore, avendo il giudice riconosciuto la sussistenza del proprio dovere di decidere il merito della causa, così come implicitamente o esplicitamente sostenuto dal ricorrente medesimo, che a quel giudice si è rivolto, con l’atto introduttivo della controversia. In termini, Cons. Stato, Ad. Plen., 28 luglio 2017, n. 4, secondo la quale “La parte risultata vittoriosa di fronte al tribunale amministrativo sul capo di domanda relativo alla giurisdizione non è legittimata a contestare in appello la giurisdizione del giudice amministrativo”. Ancora, Cons. Stato, sez. II, 6 maggio 2021, n. 3543 secondo cui: “La parte che abbia adito la giurisdizione amministrativa con l’atto introduttivo del giudizio non è legittimata a contestarla attraverso l’eccezione di difetto di giurisdizione in appello, perché tale contraddittoria condotta integra un abuso del diritto di difesa, dettato da mere ragioni opportunistiche ed in contrasto con il dovere di cooperazione per la realizzazione della ragionevole durata del processo sancita dall’ art. 2, comma 2, c.p.a.”. Negli stessi termini, Cons. Stato, sez. V, 3 maggio 2021, n. 3458. Sul punto, poi, Cons. Stato, sez. IV, 9 settembre 2020, n. 5418, ha ulteriormente precisato che nel giudizio di appello, contro gli atti già impugnati, non sono ammesse nuove censure, laddove le stesse avrebbero potuto essere proposte in primo grado: ciò in quanto la novità dei motivi equivale ad una nuova domanda. Allineandosi all’orientamento espresso dalla Suprema Corte a Sezioni unite, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha confermato il principio generale secondo il quale l’appello può essere proposto solo dalla parte soccombente in quanto la soccombenza rappresenta l’antecedente necessario del potere di impugnativa e, quindi, la parte risultata vittoriosa di fronte al tribunale amministrativo sul capo di domanda relativo alla giurisdizione non è legittimata a contestare in appello la giurisdizione del giudice amministrativo (così Cons. Stato, Ad. Plen., 28 luglio 2017, n. 4). Inoltre, C.G.A. Sicilia, sez. giurisd., 24 gennaio 2019, n. 53, ha individuato nel divieto di abuso del processo e nel principio della soccombenza quale necessario presupposto dell’appello il fondamento del divieto di ius poenitendi – il quale implica che, se il giudice adito dichiara il difetto di giurisdizione, la parte può impugnare con l’appello la sentenza, o, in alternativa, con la translatio iudicii, proseguire davanti al giudice indicato, ma non può contestare la giurisdizione del giudice ad quem. Se instaura un autonomo giudizio davanti al giudice ad quem, che ritiene di avere giurisdizione, non può contestare, mediante appello, la giurisdizione del giudice che abbia spontaneamente adito. In tema di abuso del processo cfr. T.A.R. Veneto, Venezia, sez. II, 3 dicembre 2021, n. 1459, secondo cui: “Vi è abuso del processo, che sanziona attività processuali in sé contraddittorie rispetto ad altre che le hanno precedute in quel medesimo giudizio, nel caso in cui il giudizio è stato riassunto dinanzi al giudice amministrativo, proprio in accoglimento di un’eccezione della stessa parte che poi contesta la giurisdizione dello stesso g.a.”.
[6] I principi generali del processo amministrativo NOTA: V. Cons. Stato, Ad. Plen., 3/2011, sul divieto di condotte processuali opportunistiche violative del dovere di mitigazione del danno ai sensi dell’art. 1227 c.c.. La giurisprudenza ha, ancora, ribadito che le condizioni dell’azione, ed in particolare il cd. titolo e l’interesse ad agire “assolvono una funzione di filtro in chiave deflattiva delle domande proposte al giudice, fino ad assumere l’aspetto di un controllo di meritevolezza dell’interesse sostanziale in gioco, alla luce dei valori costituzionali ed internazionali rilevanti, veicolati dalle clausole generali fondamentali sancite dagli artt. 24 e 111 Cost.; tale scrutinio di meritevolezza, costituisce, in quest’ottica, espressione del più ampio divieto di abuso del processo, inteso come esercizio dell’azione in forme eccedenti o devianti, rispetto alla tutela attribuita dall’ordinamento, lesivo del principio del giusto processo apprezzato come risposta alla domanda della parte secondo una logica che avversi ogni inutile e perdurante appesantimento del giudizio al fine di approdare attraverso la riduzione dei tempi della giustizia ad un processo che risulti anche giusto” (cfr. T.A.R. Marche, sez. I, 16 gennaio 2020, n. 40). Cfr., inoltre, Cass., sez. lav., 5 marzo 2019, n. 6343 secondo cui: “In tema di risarcimento del danno da atto amministrativo illegittimo, la domanda di annullamento dell’atto proposta al giudice amministrativo – nell’assetto normativo anteriore alla L. 205/2000, che ha concentrato presso tale giudice la tutela risarcitoria con la demolitoria – esprime la volontà del danneggiato di reagire all’azione autoritativa illegittima e, quindi, interrompe per tutta la durata del processo amministrativo il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria, successivamente esercitata dinanzi al giudice ordinario, non potendosi ipotizzare in tale situazione, una fattispecie di abuso del processo”.
[7] I principi generali del processo amministrativo NOTA: Ed è proprio argomentando dal principio della domanda, come regola che governa il processo amministrativo, che l’Adunanza plenaria, ha statuito che: “il giudice, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare l’Amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai contro interessati, anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita” (Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 13 aprile 2015, n. 4). Vedi, per un approfondimento della sentenza, Parte I, Sez. II, Cap. 1. Sul principio della domanda cfr., inoltre, T.A.R. Basilicata, Potenza, sez. I , 19 luglio 2022 , n. 549, secondo cui: “In virtù del fondamentale principio della domanda, il sindacato giurisdizionale può essere attivato soltanto ad iniziativa del soggetto che si ritiene leso, ed il processo amministrativo resta nella disponibilità della parte che lo ha attivato senza che il Giudice adito abbia alcuna possibilità di deciderlo nel merito ove la parte attrice, prima dell’introito del ricorso per la delibazione nel merito, abbia dichiarato di non avere più alcun interesse alla pronuncia di annullamento degli atti gravati”. Ancora, T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 10 giugno 2022, n. 271 per cui: “In virtù del fondamentale principio della domanda, il sindacato giurisdizionale può essere attivato soltanto ad iniziativa del soggetto che si ritiene leso e il processo amministrativo resta nella disponibilità della parte che lo ha attivato, senza che il giudice adito abbia alcuna possibilità di deciderlo nel merito ove la parte attrice, prima della spedizione della causa in decisione, abbia dichiarato di non avere più alcun interesse al ricorso. Pertanto, in tal caso il giudice è senz’altro tenuto a dichiarare l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto d’interesse. Al cospetto dell’univoca dichiarazione di parte concernente il venir meno dell’interesse al ricorso, che preclude la decisione nel merito della controversia, non può che dichiarare il gravame improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a.”. Secondo il TAR Pescara, sez. I , 3 giugno 2022, n. 218, poi: “In virtù del principio fondamentale della domanda, il sindacato giurisdizionale può essere attivato soltanto ad iniziativa del soggetto che si ritiene leso ed il processo amministrativo resta nella disponibilità della parte che lo ha attivato, senza che il giudice adito abbia alcuna possibilità di deciderlo nel merito, ove la parte attrice, prima dell’introito del ricorso per la delibazione nel merito, abbia dichiarato di rinunciarvi o di non avere più alcun interesse alla pronuncia di annullamento degli atti gravati”.
[8] I principi generali del processo amministrativo NOTA: Cfr., al riguardo, Cons. Stato, sez. II, 18 giugno 2021, n. 4714, che ha evidenziato come il principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi identificativi dell’azione, cioè il petitum e la causa petendi, attribuendo quindi un bene della vita diverso da quello richiesto ovvero ponendo a fondamento della propria decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere, salvo il potere di qualificazione giuridica dei fatti e della domanda giudiziale.
*I principi generali del processo amministrativo, contributo estratto dal Manuale Maior di Diritto Amministrativo – Parte Generale e Parte Speciale di Francesco Caringella- Dike Giuridica 2023