Diffamazione: […] L’art. 595 c.p. prevede una serie di circostanze speciali, cui si aggiungono quelle previste nella normativa di settore.
Prendendo le mosse dal comma secondo della disposizione in esame, deve rilevarsi che la pena è raddoppiata, con un effetto speciale rispetto a quella base, “Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato”.
Deve ritenersi che in siffatte ipotesi l’effetto lesivo della reputazione della persona offesa sia maggiore, per via dell’addebito specifico mosso nei suoi confronti, che secondo una parte più rigorosa della dottrina deve risultare storicamente individuabile, sul piano temporale e delle modalità nonché del luogo ove sia avvenuto [Fiandaca, Musco; Siracusano]. Altra parte della dottrina e ritiene invece sufficiente la concretezza dell’addebito, la cui descrizione risulti tale da renderlo verosimile e credibile, nelle sue linee essenziali [Mantovani].
Un terzo orientamento dottrinale adopera invece un criterio funzionale e qualifica come determinati i fatti che si prestano a costituire oggetto di accertamento o di prova in giudizio [Gaito].
Il comma 3 dell’art. 595 c.p., prevede invece come aggravante l’aver commesso il fatto “con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico”.
La ratio dell’aggravante in questione, che sposta peraltro la competenza per materia in capo al Tribunale in composizione monocratica – con tutto ciò che ne consegue sul piano sanzionatorio – sia da individuare nella potenzialità offensiva del mezzo adoperato, sul piano della più ampia diffusione legata ai mezzi predetti, nonché sul piano temporale, consentendo di norma anche la conservazione e la ripetizione del contenuto diffamatorio [Mantovani].
Per “atti pubblici” devono intendersi tutti quelli destinati alla pubblicità, come ad esempio i verbali di assemblee, di operazioni elettorali, di protesto, e simili.
Con riferimento, infine, all’ultimo comma dell’art. 595 c.p., che configura la c.d. diffamazione corporativa, aggravando il reato in ragione della natura della persona offesa, devono intendersi per “corpi politici” gli organi costituzionali (Governo, Camera, Senato, assemblee regionali, nonché gli uffici elettorali politici), per “corpi amministrativi”, le autorità collegiali che svolgono funzioni prevalentemente amministrative (consigli comunali, consigli superiori, commissioni centrali ecc.) e per “corpi giudiziari” tutti i collegi investiti di giurisdizione, ordinaria o speciale. Infine, per “altre Autorità costituite in collegio” si intendono tutti gli uffici che esercitano una pubblica funzione collettivamente.
Affinché si perfezioni il reato di diffamazione aggravata ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 595 c.p., è necessario che l’offesa non sia pronunciata in presenza di tali Autorità, né che sia comunicata a mezzo telegrafo, scritti o disegni, altrimenti si configureranno le più gravi fattispecie di oltraggio ex artt. 342 ss. c.p.
Così esaurita la trattazione delle circostanze speciali dettate dall’art. 595 c.p., deve procedersi ad una breve disamina delle aggravanti disciplinate nella normativa di settore.
In primo luogo, va menzionato l’art. 36 della L. 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato dalla L. 94/2009, che prevede un aumento di pena da un terzo alla metà qualora il delitto in esame sia stato commesso “in danno di persona portatrice di minorazione fisica, psichica o sensoriale”.
Può dunque concludersi l’esame delle circostanze aggravanti speciali, dando atto della disciplina dettata in passato dall’art. 13 della L. 8 febbraio 1948, n. 47, c.d. legge stampa, che all’art. 1, tutt’ora vigente, detta la definizione di stampa e stampati, rilevante anche ai fini dell’art. 595, comma 3, c.p., disponendo che “sono considerati stampa o stampati […] tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”.
Le caratteristiche principali di questo mezzo di comunicazione risiedono pertanto nella modalità di formazione dello scritto (riproduzioni tipografiche mezzi meccanici o fisico-chimici) e nelle modalità della divulgazione, che avviene, appunto, tramite la pubblicazione. Nel concetto di stampa non rientrano quindi i nuovi mezzi destinati a essere trasmessi in via telematica quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list e social network, pena altrimenti un’illegittima estensione analogica in malam partem di disposizioni incriminatrici che il legislatore, in maniera inequivocabile, ha inteso riservare ai soli stampati prodotti mediante mezzi meccanici o fisico-chimici (Cass. 25 febbraio 2016, n. 12536).
Ai sensi del sopra citato art. 13 della legge sulla stampa “Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire 500.000 (euro 256)”.
La disposizione in esame prevedeva dunque una circostanza aggravante, ad effetto speciale, autonoma e indipendente, rispetto alla fattispecie base di diffamazione, di cui all’art. 595 c.p.
Per quanto in questa sede rileva, la fattispecie aggravata di cui al comma 3 dell’art. 595 c.p., qualora la diffamazione sia consistita “nell’attribuzione di un fatto determinato”, con il mezzo della stampa, era punita, in applicazione dell’art. 13 della L. 8 febbraio 1948, n. 47, con la pena detentiva della reclusione, da uno a sei anni, che in questo caso si cumulava con quella pecuniaria, che parte dalla multa di 256 euro.
Il combinato disposto tra l’art. 595 c.p. e l’art. 13, L. 8 febbraio 1948, n. 47, nella parte in cui impone al giudice penale l’irrogazione, sempre e comunque, di una pena detentiva, in via cumulativa e non soltanto alternativa rispetto alla pena pecuniaria, per i fatti di diffamazione a mezzo stampa, consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato, si poneva tuttavia in contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, quale norma interposta, come interpretata dalla Corte EDU nelle sent. 24 settembre 2013, della Seconda Sezione, in causa Belpietro c. Italia, ricorso n. 43612/10; 8 ottobre 2013, della Seconda Sezione, in causa Ricci c. Italia, ricorso n. 30210/06 e 7 marzo 2019, della Prima Sezione, in causa Sallusti c. Italia, ricorso n. 22350/13.
Nel pronunciarsi in merito alla vicenda, la Corte di Strasburgo ha infatti che, per stabilire se un’ingerenza nel predetto diritto sia legittima, occorre stabilire se fosse “prevista dalla legge”, se perseguisse uno o più scopi legittimi secondo la Convenzione e se fosse “necessaria in una società democratica” per raggiungere questi scopi.
Si legge, al riguardo, nelle sentenze citate che “una pena detentiva inflitta per un reato commesso nel campo della stampa sia compatibile con la libertà di espressione giornalistica garantita dall’art. 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, soprattutto quando sono stati gravemente violati altri diritti fondamentali, come nell’ipotesi, ad esempio, della diffusione di un discorso di odio o di istigazione alla violenza […]”.
Può dunque rilevarsi, quale principio affermato in maniera costante dalla Corte EDU, nell’arco di oltre cinque anni, dal settembre 2013 al marzo 2019, in ben tre occasioni specifiche nei confronti dello Stato italiano, che nei confronti dei giornalisti che rispondano di reati commessi nell’esercizio della propria attività professionale, quale il delitto di diffamazione aggravata, l’irrogazione di una pena detentiva e comunque la sola possibilità di irrogazione della pena della reclusione, quand’anche soggetta in concreto a commutazione in pena pecuniaria o a sospensione condizionale della pena, costituisce un elemento idoneo a determinare un effetto dissuasivo rispetto all’esercizio della libertà di manifestazione di pensiero, nonché di informazione, tale da integrare una violazione dell’art. 10 CEDU, sotto il profilo della necessarietà in una società democratica, in tutti i casi in cui non ricorrano circostanze eccezionali e, segnatamente qualora non siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.
Alla luce del rilevato contrasto, come sopra ricostruito in relazione alla normativa impugnata e ai parametri invocabili, i Tribunali di Bari e di Salerno hanno dunque sollevato due distinte questioni di legittimità costituzionale.
Il Tribunale di Salerno ha chiesto, con ordinanza di cui al n. 140/19 reg. atti introduttivi della Corte costituzionale, la declaratoria tout court di incostituzionalità dell’art. 13 L. stampa, espungendo l’aggravante dall’ordinamento per sanare il contrasto predetto.
Al contrario, il Tribunale di Bari, con ord. 146/2019, ha prospettato l’adozione di una pronuncia manipolativa del testo dell’aggravante, volta a rendere alternative le pene in questione, in linea con la disciplina dell’art. 595 c.p., che costituirebbe pertanto un valido parametro guida per il giudice costituzionale.
La Corte costituzionale, il 9 giugno 2020, ha dapprima adottato in merito alle predette questioni di legittimità costituzionale, un’ordinanza interlocutoria di rinvio al 21 giugno 2021, per consentire al legislatore di intervenire sulla materia per contemperare i principi in contrasto (seguendo pertanto, per la seconda volta nella sua storia, la soluzione adottata con ord. 207/2018 in relazione ai trattamenti di fine vita ex art. 580 c.p., seguita dalla già esaminata sent. 242/2019).
Nell’ordinanza n. 132, depositata il 26 giugno 2020, è stato in particolare affermato che “Il tradizionale criterio di bilanciamento tra la libertà di stampa e la tutela della reputazione individuale, raggiunto mediante l’elaborazione dei limiti dell’interesse pubblico, della verità e della continenza, è divenuto ormai inadeguato, anche alla luce dei principi elaborati dalla Corte EDU.
È quindi necessario rimodulare il giudizio di bilanciamento, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica, con le ragioni di tutela della reputazione individuale.
I giudici della Corte costituzionale, tuttavia, sottolineano che tale rimodulazione spetti in primo luogo al legislatore, sul quale incombe la responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie in grado di assicurare il giusto contemperamento dei diversi interessi coinvolti”.
Decorso inutilmente il tempo concesso al Parlamento, con sent. 22 giugno 2021, n. 150, ha accolto le questioni di legittimità costituzionale, dichiarando incostituzionale l’art. 13 legge stampa, per contrasto con i parametri sovranazionali invocati dai giudici a quibus, optando così per la soluzione più drastica di eliminare tout court l’aggravante.
Sul punto si è tuttavia osservato che, così facendo, sono state private di una tutela effettiva le ipotesi più gravi che la stessa Corte di Strasburgo riconosceva meritevoli di una pena detentiva, come nel caso di discorsi di odio razziale ovvero di incitazione alla violenza.
2.2 Esimenti speciali
Al pari delle esaminate circostanze, il legislatore ha previsto per il delitto di diffamazione un’articolata disciplina speciale, che ne regola la cause di non punibilità, agli artt. 596, 598 e 599 c.p.
L’art. 596 c.p. stabilisce che “il colpevole del delitto previsto dall’articolo precedente non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa.
Tuttavia, quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la persona offesa e l’offensore possono, d’accordo, prima che sia pronunciata sentenza irrevocabile, deferire ad un giurì d’onore il giudizio sulla verità del fatto medesimo.
Quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la prova della verità del fatto medesimo è però sempre ammessa nel procedimento penale:
1. se la persona offesa è un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio delle sue funzioni;
2. se per il fatto attribuito alla persona offesa è tutt’ora aperto o si inizia contro di essa un procedimento penale;
3. se il querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto ad esso attribuito.
Se la verità del fatto è provata o se per esso la persona, a cui il fatto è attribuito, è condannata dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’imputazione non è punibile, salvo che i modi usati non rendano per se stessi applicabili le disposizioni dell’art. 595, primo comma”.
La norma in questione (che il successivo art. 596bis c.p. estende ai casi di responsabilità di cui agli artt. 57 ss. c.p.) dunque, esclude dunque la punibilità del soggetto agente nei casi in cui la diffamazione consista nell’attribuzione di un fatto determinato che sia risultato veritiero, ammettendo tuttavia la prova di tale condizione in ipotesi tassative ed eccezionali e facendo salva la responsabilità penale, sebbene nella forma semplice di cui al comma primo (posto che, come osservato, l’attribuzione di un fatto determinato aggrava il reato ai sensi del comma 2 dell’art. 595 c.p.), quando l’offesa all’altrui reputazione derivi dai modi usati (c.d. continenza delle espressioni).
Le caratteristiche esposte consentono dunque di qualificare l’istituto in esame, in termini di causa di non punibilità in senso stretto, che postula dunque il perfezionarsi di un fatto tipico e colpevole, dal momento che la prova della verità del fatto determinato è ammessa in ipotesi eccezionali e non potrebbe quindi ritenersi un elemento costitutivo negativo del reato; inoltre, viene fatta salva la responsabilità per diffamazione, sebbene non aggravata, quando i modi in cui il soggetto agente si sia espresso risultino comunque offensivi, sì da poter escludere altresì che si tratti di una scriminante, che renderebbe lecito tout court il fatto commesso; né può condividersi la tesi della scusante, in quanto la verità del fatto non rileva, come osservato, ai fini dell’elemento soggettivo del dolo generico, che ricomprende il solo carattere diffamatorio delle esternazioni, risultando indifferenti i motivi della condotta.
La prova della verità del fatto è ammessa nei soli tre casi indicati dall’art. 596, comma 3, c.p., il primo dei quali è legato al prestigio che riveste la persona offesa, quale pubblico ufficiale, nonché alla tutela dell’immagine dell’ente pubblico cui appartiene, posto che deve trattarsi di fatti inerenti alle funzioni svolte, che richiedono si faccia chiarezza e si estenda l’oggetto del giudizio e l’autorità della sentenza altresì al fatto in questione.
Nel contempo può provarsi la verità del fatto diffamatorio determinato quando lo stesso sia oggetto di un procedimento penale pendente, onde evitare conflitti di giudicati rispetto al procedimento penale parallelo.
L’ultimo caso è quello in cui sia la persona offesa a chiedere “che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto ad esso attribuito”. La previsione è coerente con la ratio del delitto di diffamazione, che concepisce l’onore, come osservato in sede introduttiva, nella sua accezione normativa, insensibile alla situazione di fatto in quanto volta a salvaguardare in ogni caso la dignità della persona. Appare dunque coerente con tale impostazione, suffragando nel contempo la tesi unitaria funzionale o normativa circa la nozione di onore, che la prova della verità del fatto diffamatorio non sia rilevante ai fini dell’accertamento del reato – che richiede esclusivamente di valutare se l’esternazione posta in essere dal soggetto agente abbia leso la reputazione della vittima – se non nei casi in cui occorra tutelare un interesse generale ovvero quando sia la stessa persona offesa a chiederlo.
La medesima ratio ispira il disposto di cui al comma secondo dell’art. 596 c.p., nella parte in cui consente di deferire ad un giurì d’onore (la cui composizione e il cui procedimento sono disciplinati dagli artt. 177 ss. disp. att. c.p.p.) il giudizio sulla verità del fatto determinato diffamatorio, purchè “prima che sia pronunciata sentenza irrevocabile”.
La disciplina dell’art. 596 c.p. è completata dal successivo art. 597 c.p. che nel disciplinare la proposizione della querela, prevede che se la persona offesa e l’offensore hanno esercitato la facoltà ex art. 596, comma 2, c.p. (c.d. exceptio veritatis), la querela, necessaria per la procedibilità del delitto ai sensi del comma 1 dell’art. 597 c.p., “si considera tacitamente rinunciata o rimessa”, con conseguente estinzione del reato ex art. 152 c.p.
Il comma 3 dell’art. 597 c.p. prevede inoltre che in caso di morte della persona offesa durante il termine di novanta giorni, utile per sporgere querela, o nei casi in cui la diffamazione riguardi la memoria di un defunto (come si è osservato in precedenza, infatti, sono tutelati anche i soggetti che vantino uno stretto legame con il destinatario delle offese), “possono proporre querela i prossimi congiunti, l’adottante e l’adottato” (la norma è utile nello stabilire quali tipologie di relazioni assumano rilevanza in tal senso). Agli stessi soggetti spetterà la legittimazione ad investire della exceptio veritatis il giurì d’onore, anche quando la persona offesa sia morta dopo aver sporto querela.
La seconda esimente speciale prevista per il delitto di diffamazione è disciplinata dall’art. 598 c.p., che prende in considerazione le “offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle Autorità giudiziarie o amministrative” e stabilisce che “non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo.
Il giudice, pronunciando nella causa, può, oltre ai provvedimenti disciplinari, ordinare la soppressione o la cancellazione, in tutto o in parte, delle scritture offensive, e assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.
Qualora si tratti di scritture per le quali la soppressione o cancellazione non possa eseguirsi, è fatta sulle medesime annotazione della sentenza”.
La ratio sottesa a tale immunità risiede nella salvaguardia del diritto di difesa, onde garantire alle parti e ai loro patrocinatori libertà di discussione e di difesa, senza le remore che possono derivare dal rischio di incriminazione per espressioni, eventualmente considerate offensive, adoperate nel contesto difensivo.
L’ultima esimente è infine disciplinata dall’art. 599, c.p., rubricato “provocazione” e modificato per effetto del D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, che ha eliminato le parti della disposizione relative al delitto di ingiuria.
L’art. 599 c.p. oggi prevede che “non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’art. 595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”.
La provocazione, dunque, che assume valore di circostanza attenuante ai sensi dell’art. 62, comma 1, c.p., diviene per effetto dell’art. 599 c.p. e in relazione allo specifico delitto di diffamazione causa di impunità, rispetto alla quale si sono alternate la tesi che la qualifica come causa di non punibilità in senso stretto [Mantovani] alla posizione dottrinale che valorizza i profili soggettivi dell’esclusione della colpevolezza, sostenendo si tratti di una scusante [Fiandaca, Musco]. Trattandosi in ogni caso di istituti eccezionali, non suscettibili quindi di estensione analogica, e di natura soggettiva, che ne impedisce l’estensione ai concorrenti nel reato, la soluzione al contrasto in esame non presenta rilevanti conseguenze pratiche.
Analogamente a quanto previsto dall’art. 393bis c.p., in relazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, il legislatore ha inteso escludere la responsabilità penale per le reazioni a un fatto ingiusto altrui, poste in essere da chi ritenga di averlo subito.
Occorre infatti, quale presupposto per l’applicazione della norma, il verificarsi di un fatto ingiusto, anche se non penalmente rilevante e finanche contrario a regole sociali [Siracusano; Bisori], così valutato in base a parametri oggettivi e non già riferibili alla sensibilità del soggetto agente (Cass. 13 giugno 2014, n. 25421); occorre dunque che si tratti di un comportamento “che si svolga con modalità le quali, alla stregua del costume sociale e delle regole della civile convivenza, siano vessatorie, sconvenienti e rappresentino espressione di iattanza, dispetto, rivalsa” ovvero meramente omissivo, come il silenzio, ove si concreti nella frustrazione di una aspettativa che la coscienza etica della collettività riconosce degna di considerazione, in quanto attinente al normale svolgimento dei rapporti sociali.
Deve trattarsi in ogni caso di un’ingiustizia tale da giustificare, secondo l’id quod plerumque accidit, lo stato d’ira del soggetto agente. Pur non essendo richiesta, infatti, la proporzionalità tra le offese, il carattere eccessivo della reazione può escluderne il collegamento con il fatto ingiusto del provocatore, degradandolo a mera occasione del delitto, che resta in tal caso punibile (Cass. 15 novembre 1993, n. 10307). La medesima ratio impone che il fatto ingiusto sia stato commesso dalla persona offesa del delitto di diffamazione o da persona ad esso ricollegabile da un rapporto stretto.
Occorre inoltre che la condotta di diffamazione si verifichi “subito dopo”, richiedendosi pertanto la contestualità, non necessariamente la contemporaneità, tra fatto ingiusto e la reazione, sì da poterle ritenere interdipendenti.
La giurisprudenza ha assegnato rilevanza altresì alla provocazione putativa¸ purché l’errore in cui sia incorso il soggetto agente risulti plausibile e ragionevole e non meramente pretestuoso (Cass. 28 luglio 2017, n. 37950). […]
*Contributo estratto dal Manuale ragionato di diritto penale parte speciale di F. Caringella, A. Salerno, A. Trinci – Dike Giuridica – Novembre 2023