Le nuove figure di “daspo urbano” – […] Dalle riflessioni sin qui svolte si ricava come il concetto di “sicurezza urbana” sia stato sempre caratterizzato da contorni fumosi e indefiniti, assumendo un carattere di versatile ambiguità, come si evince, da ultimo, dalla definizione dell’art. 4, D.L. 14/2017, nella parte in cui la “sicurezza urbana” viene qualificata come bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire attraverso molteplici interventi che vanno dalla riqualificazione e recupero delle aree o dei siti più degradati, all’eliminazione dei fattori di marginalità o di esclusione sociale, alla prevenzione della criminalità, all’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile, etc.[1].
La notevole ampiezza di questa definizione fa sì che essa diventi un concetto flessibile ed elastico, capace di attivare modalità di regolazione e di disciplina più agili e a più ampio raggio (anche se con meno garanzie), al di fuori dal paradigma penale sorto attorno al concetto di vita urbana[2].
Una tale nozione di sicurezza urbana rappresenta un precipitato di una ben precisa evoluzione storica, sociale e normativa che ha caratterizzato il modo di affrontare i problemi inerenti alla “sicurezza” non solo in Italia ma anche in altri Paesi occidentali.
Più nel dettaglio, la tendenza che si riscontra da tempo in molti Paesi occidentali è quella di rispondere alle ansie dell’opinione pubblica non solo facendo leva sulla tradizionale risorsa del diritto penale, ma anche sull’ampliamento del novero dei comportamenti non penalmente rilevanti ma passibili di sanzioni tramite regolamenti di polizia urbana, ordinanze e provvedimenti antidegrado e contro le inciviltà[3].
Il decreto Minniti si inserisce in tale contesto, già battuto dal Ministro Maroni nella stagione dei decreti del 2008 e 2009 ed evocativo dell’opera condotta da Rudolph Giuliani a New York. Dal 1994 al 2001, l’allora sindaco della città simbolo degli Stati Uniti diede attuazione a una strategia nota come Tolleranza Zero, ispirata alla cd. Broken Windows Theory e caratterizzata, da un lato, dall’anticipazione dell’intervento repressivo, sempre più orientato a eliminare situazioni di fastidio, degrado o inciviltà (signs-of-crime policing); dall’altro, dall’affermazione di un’idea di prevenzione, volta a limitare le opportunità criminali attraverso l’uso di sistemi di videosorveglianza, l’incremento di agenti di polizia per le strade, il ricorso a soluzioni architettoniche ispirate alla teoria dello spazio difendibile di Oscar Newman e all’approccio del CPTED (Crime Prevention Through Environmental Design).
Ebbene, ad uno sguardo d’insieme, si può affermare che anche il decreto Minniti risenta degli spunti e dell’approccio tipico della tolleranza zero, cercando di compendiare prevenzione situazionale e controllo, da un lato, e intervento repressivo-punitivo, dall’altro. Sicché, per contrastare l’incuria e il degrado del territorio o lo stazionamento ostativo alla libera fruibilità di spazi pubblici, e per il perseguimento di finalità quali la tranquillità e il riposo dei residenti, il legislatore attribuisce nuovi strumenti a sindaco e questore (quali i rafforzati poteri di ordinanza sindacale e i nuovi daspo), da annoverarsi nel solco del diritto amministrativo punitivo[4].
Ed è proprio una logica improntata alla prevenzione di un intervento repressivo-sanzionatorio, ispirata alla tolleranza zero, che si riscontra nelle nuove figure di cd. “daspo urbano” previste negli artt. 9, 10 e 13 del decreto Minniti.
In linea di continuità si pongono i successivi interventi modificativi intervenuti sul Decreto Minniti, alla luce del cd. decreto sicurezza (L. 1° dicembre 2018, n. 132, di “Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, recante disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Delega al Governo in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate”); del c.d. Decreto Sicurezza-bis (D.L. 13 giugno 2019, n. 53, conv. in L. 8 agosto 2019, n. 77 “Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”) e del decreto immigrazione e sicurezza (D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, conv. in L. 173/2020).
L’intento del legislatore mira ad assicurare una più efficace prevenzione, per un verso estendendo il novero dei potenziali destinatari della misura D.A.S.P.O., ampliando l’elencazione dei luoghi suscettibili di applicazione della stessa, e per altro verso, rinforzando il trattamento sanzionatorio.
Si è al cospetto di misure innovative che hanno destato perplessità e aperto nuovi fronti di dibattito in ordine alla natura giuridica e alle implicazioni processuali che esse pongono. Si allude, in primo luogo, alle figure di cui all’art. 9 e nell’art. 10 e, in specie, al provvedimento di allontanamento e al divieto di accesso, identificati complessivamente come “daspo urbano”[5].
L’art. 9, comma 1, statuisce che “chiunque ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione delle predette infrastrutture[6], in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti, è soggetto alla sanzione amministrativa […]. Contestualmente all’accertamento della condotta illecita, al trasgressore viene ordinato, nelle forme e con le modalità di cui all’articolo 10, l’allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto”. Nel comma 2 è invece sancito che “il provvedimento di allontanamento del presente articolo è disposto altresì nei confronti di chi commette le violazioni previste dalle predette disposizioni nelle aree di cui al medesimo comma”[7].
Ai sensi del comma 4 della norma in parola, l’autorità competente per tali violazioni è il sindaco del territorio ove le stesse siano state accertate.
Conviene sin da ora rilevare come, ad avviso dell’opinione più accreditata, si sia al cospetto di una misura di prevenzione cd. ante o praeter delictum[8], che non postula l’avvenuta commissione di un delitto ai fini della sua irrogazione, essendo preordinata ad intercettare la pericolosità sociale del reo, da valutarsi sulla base di precedenti condotte.
Al sindaco è dunque riconosciuto il potere di adottare una misura di prevenzione (seppur tale qualificazione non sia del tutto pacifica, come si vedrà), benché della durata massima di quarantotto ore[9]. Trattandosi di una misura di prevenzione[10], il sindaco eserciterà un potere in qualità di ufficiale di Governo nello svolgimento delle funzioni di pubblica sicurezza. In ogni caso, l’applicazione della misura presuppone la previa commissione di illeciti amministrativi (e non di reati), rivelatrice della matrice sanzionatoria del provvedimento, nonché una valutazione stringente sull’impatto che tale misura può esplicare sulla libertà personale, non potendo essere oggetto di un mero automatismo[11].
Il comma 2 dell’art. 10 disciplina compiutamente il divieto di accesso, altrimenti noto come “daspo urbano”. Il comma 1 impone al Sindaco di comunicare al Questore competente per territorio l’avvenuta adozione del provvedimento di allontanamento. Ciò in quanto detto provvedimento costituisce il prius logico ai fini dell’adozione di un provvedimento motivato da parte del Questore, in linea con il disposto di cui all’art. 9 commi 1 e 2.
Tale provvedimento consiste nel divieto, non superiore a dodici mesi, di accesso ad una o più delle aree indicate nell’art. 9 (art. 10 comma 2); nel caso in cui il soggetto destinatario abbia ricevuto, nel corso degli ultimi 5 anni, una sentenza definitiva o confermata in appello per reati contro la persona o il patrimonio, il divieto non potrà essere inferiore ai dodici mesi, ma comunque non superiore a due anni (art. 10 comma 3)[12].
L’espresso richiamo[13], contenuto nel quarto comma, alla disciplina sulla sicurezza durante le manifestazioni sportive, appare significativo per due ordini di motivi. Innanzitutto, è possibile sostenere che il legislatore abbia voluto preventivamente chiarire che il divieto di accesso (e contestualmente anche l’ordine di allontanamento) rappresenti una misura preventiva, che prescinde dalla commissione di un reato. In secondo luogo, tale richiamo rappresenta la ragione per cui tale misura è stata ribattezzata “daspo urbano”, anche se invero qualcuno in dottrina ritiene più corretto definirla con l’acronimo di “D.A.L.PU.”: Divieto di Accesso a Luogo Pubblico[14].
In materia di DASPO urbano, la Consulta (Corte cost. 25 marzo 2024, n. 47), chiamata a pronunciarsi su una questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento agli artt. 9, comma 1, e 10, commi 1 e 2, D.L. 14/2017, ha osservato che “nel contesto della norma sottoposta a scrutinio il termine “sicurezza” può – e deve – essere inteso in un senso più ristretto e coerente con la natura di misura di prevenzione personale atipica, generalmente riconosciuta all’istituto in discussione, e al tempo stesso in linea con il dettato costituzionale: vale a dire propriamente nel senso di garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro lecite attività al riparo da condotte criminose”.
Sulla scorta di tale conclusione, quindi, si ricava che la definizione di sicurezza urbana di cui all’art. 4 del “Decreto Minniti”, come convertito, riguarderebbe soltanto le disposizioni contenute nella Sez. II del Capo I. Invece, l’art. 10, collocato nel Capo II della disciplina in esame (“Disposizioni a tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano”), evocherebbe la nozione di “sicurezza tout court”, come contemplata dall’art. 16 Cost. In altri termini, l’espressione “sicurezza delle città” non costituisce un sinonimo del concetto di “sicurezza urbana”, dal momento che alla prima si aggiunge il decoro urbano che, a sensi dell’art. 4, è una componente della sicurezza urbana.
La misura del divieto di accesso è prevista, altresì, nell’art. 13, riferendosi in questo caso a un settore specifico della sicurezza urbana: quello del contrasto alla vendita e cessione di sostanze stupefacenti e psicotrope.
A differenza di quanto previsto nell’art. 10, il divieto di accesso o stazionamento in determinati locali pubblici, aperti al pubblico o in specifici pubblici esercizi, può essere disposto dal questore solo nei confronti di coloro i quali abbiano riportato una o più denunzie, o siano state condannate anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi tre anni per la vendita o la cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’art. 73 del testo unico di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 commessi all’interno o nei pressi dei suddetti luoghi. Il questore può, altresì, comminare a tali soggetti una serie di prescrizioni personali ulteriori: si tratta di prescrizioni analoghe a quelle previste dalla legge sulle misure di prevenzione, come ad esempio il divieto di allontanarsi dal comune di residenza[15].
In termini generali, si è sostenuto che l’impostazione del decreto Minniti sia senza dubbio ispirata ad una logica di prevenzione repressivo-sanzionatoria di tutti quei fenomeni di degrado, incuria, disagio e/o inciviltà che possono compromettere la civile convivenza nell’ambito urbano finanche estrinsecandosi in fenomeni criminosi in grado di compromettere direttamente l’ordine e la sicurezza pubblica.
Nondimeno, non è mancato chi in dottrina ha qualificato i daspo come “provvedimenti di polizia aventi natura sanzionatoria”[16], ritenendo che il decreto Minniti sia sostanzialmente un provvedimento di polizia, volto a tutelare in via prioritaria la sicurezza e l’ordine pubblico.
Invero, proprio in relazione alle misure di sicurezza ed alle misure di prevenzione, si è fatto autorevolmente riferimento nella dottrina penalistica ad un “sottosistema penale di polizia”[17] ciò a significare, in chiave critica, il rispetto solo formale dei principi garantistici del diritto penale con riferimento a provvedimenti intrinsecamente afflittivi ma, non assistiti da garanzie di rigore pari a quelle che il diritto penale impone[18].
A questo proposito, va rilevato che il Daspo si caratterizza per un’ampia discrezionalità ed è finalizzato ad anticipare la tutela dell’ordine e della pubblica sicurezza in relazione a episodi di violenza intervenuti nel corso delle manifestazioni sportive. Sicché, tale provvedimento va esente dalla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio ma non da quella del più probabile che non, tipica di un giudizio civilistico[19], operando in un quadro indiziario forte, univoco ed evidente, basato cioè su indizi gravi, precisi e concordanti. Nell’indagine causale e in specie, nella regola causale utilizzata, si ricava la principale differenza rispetto alle misure di prevenzione, nel loro complesso, di matrice penalistica
[1] V. Corte cost. 25 marzo 2024, n. 47, da cui si ricava che la definizione di sicurezza urbana di cui all’art. 4 del “Decreto Minniti”, come convertito, riguarderebbe soltanto le disposizioni contenute nella Sez. II del Capo I; invece, l’art. 10, collocato nel Capo II della disciplina in esame (“Disposizioni a tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano”), evocherebbe la nozione di “sicurezza tout court”, come contemplata dall’art. 16 Cost.
[2] Così, C. Ruga Riva, R. Cornelli, A. Squazzoni, P. Rondini e B. Biscotti, La sicurezza urbana e i suoi custodi (il Sindaco, il Questore e il Prefetto). Un contributo interdisciplinare sul cd. decreto Minniti, cit., 233.
[3] Si pensi, ad esempio, agli Asbo inglesi e alle Civility Laws statunitensi.
[4] Il diritto amministrativo punitivo, quale branca del diritto amministrativo, è governato dalla criteriologia Engel, elaborata dalla giurisprudenza convenzionale e punto di incontro tra il diritto amministrativo e quello punitivo. Si è al cospetto di una sorta di cartina tornasole utilizzabile dall’interprete nell’operazione di riconoscimento di una c.d. pena camuffata e, cioè, formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale. Si allude al grado di colpevolezza del reo, alla gravità del fatto e della misura nonché al suo formale riconoscimento come penale nel panorama giuridico nazionale.
[5] L.M. Di Carlo, Prime riflessioni sul cd. “Daspo urbano”, 13 settembre 2017, reperibile online al link: federalismi.it, 8.
[6] Ci si riferisce alle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze.
[7] Il riferimento è al periodo precedente, in cui sono indicati: l’art. 688 c.p. (Ubriachezza); l’art. 726 c.p. (Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio); l’art. 29 del D.Lgs. 31 marzo 114/1998 (Divieto di commercio in aree pubbliche senza autorizzazione e relative sanzioni); l’art. 7, comma 15bis, del codice della strada, di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Sanzioni contro l’esercizio abusivo di guardiamacchine e parcheggiatore abusivo).
[8] Sulle misure di prevenzione la bibliografia è amplissima; si ricorda da ultimo AA.VV., La giustizia preventiva: ricordando Giovanni Conso – Atti del Convegno, Cagliari, 29-31 ottobre 2015, Milano, 2016; F. Fiorentin, Misure di prevenzione personali e patrimoniali, Torino, 2018.
[9] L’art. 10 recita al primo comma che “l’ordine di allontanamento di cui all’articolo 9, comma 1, secondo periodo e comma 2 […] cessa l’efficacia trascorse quarantotto ore dall’accertamento del fatto”. Occorre la convalida del Gip ai fini dell’efficacia del provvedimento, il quale sarà chiamato a valutare i fatti indicati dall’autorità di pubblica sicurezza, posti a suffragio della misura di prevenzione, con conseguente obbligo di comunicazione al destinatario (tifoso). Si veda, sul punto, Cass. pen., sez. III, 41899/2023. Ai sensi dell’art. 6, comma 4, L. 401/1989, l’ordinanza di convalida è ricorribile in Cassazione, avendo una valenza decisoria.
[10] L.M. Di Carlo, Prime riflessioni sul cd. “Daspo urbano”, cit. 9.
[11] Si veda, TAR Milano, sez. I, 847/2023.
[12] Rilevante è il distinguo tra l’obbligo di firma presso la polizia giudiziaria ex art. 282 c.p.p. e l’obbligo di firma presso l’autorità associata al daspo ex art. 6, comma 2 L. 401/1989, che si coglie nelle finalità perseguite: il primo mira a impedire la reiterazione di condotte di reato; il secondo, invece, a inibire l’ingresso dei tifosi in luoghi in cui sono in corso manifestazioni sportive (Cass. pen., sez. VI, 25379/2023).
[13] “In relazione al provvedimento di cui al comma 3 si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’art. 6, commi 2bis, 3 e 4, della L. 13 dicembre 1989, n. 401”.
[14] Così, L.M. Di Carlo, Prime riflessioni sul cd. “Daspo urbano”, cit. 10.
[15] Appare interessante, infine, oltre che rilevante in punto di qualificazione delle figure in esame, quanto previsto dall’art. 15, lett. a), che opera un’estensione della disciplina sulle misure di prevenzione personali, che potranno ora essere adottate anche nei confronti di coloro che abbiano violato i divieti di accesso ex artt. 10 e 13, D.L. 14/2017.
[16] E. Follieri, Il DASPO urbano (artt. 9, 10 e 13 del D.L. 20 febbraio 2017 n. 14), in giustamm.it, 2017, fasc. 3.
[17] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 2009, 795 e ss.
[18] Secondo P. Pittaro, La natura giuridica delle misure di prevenzione, in F. Fiorentin, Misure di prevenzione personali e patrimoniali, Giappichelli Editore, Torino, 2018, sembrerebbe quindi tornarsi a quel diritto di polizia di origine ottocentesca che vedeva le misure di prevenzione codificate come misure di polizia in materia di pubblica sicurezza nel T.U. delle leggi di pubblica sicurezza del 30 giugno 1889, n. 6144.
[19] Si veda, Cons. Stato, sez. III, 7493/2023 e nello stesso senso, Con. Stato, sez. III, 7487/2023.
*Contributo estratto dal “Manuale di diritto amministrativo” di Francesco Caringella – XVII edizione – Dike giuridica editrice – Febbraio 2025