[…] Altra causa di giustificazione è disciplinata dall’art. 2045 c.c. a mente del quale agisce in stato di necessità colui che, al fine di salvare se stesso o altri dal pericolo di un danno grave alla persona cagiona un danno ad un terzo estraneo.
La norma riproduce, per ciò che concerne i presupposti l’art. 54 c.p., diversi però sono gli effetti. Invero, l’art. 54 c.p. esclude in toto la punibilità del soggetto agente, mentre l’art. 2045 c.c. fa sorgere in capo al soggetto necessitato l’obbligo di corrispondere un’indennità.
Particolarmente discusso è il fondamento del regime di cui alla norma in esame.
L’esenzione dall’obbligo risarcitorio è legato, secondo alcuni, all’assenza dell’elemento psicologico; secondo altri, all’impossibilità che l’ordinamento pretenda comportamenti eroici inesigibili dall’uomo medio.
Discusso è anche il fondamento dell’obbligo indennitario.
La dottrina tradizionale riconduce la causa di giustificazione in esame, al pari secondo alcuni delle altre cause di giustificazione, nell’ambito dei c.d. “atti leciti dannosi” e, cioè, di quei fatti che, pur ledendo la sfera giuridica altrui, non determinano il sorgere della responsabilità, in quanto espressamente autorizzati dall’ordinamento.
Più precisamente, si osserva che il danno cagionato in presenza di una causa di giustificazione non può essere qualificato come ingiusto, poiché il soggetto ha agito in conformità all’ordinamento.
Fermo restando che i danni seppur non ingiusti, non sono giuridicamente irrilevanti, poiché in alcune fattispecie possono essere valutati al fine di corrispondere al danneggiato un’indennità. Alla logica degli atti leciti dannosi soggiacerebbe appunto l’art. 2045 c.c., che obbliga ad un indennizzo l’autore dell’atto lecito dannoso.
Recente orientamento, critico nei confronti della categoria degli atti leciti dannosi, ritiene che la causa di giustificazione ex art. 2045 c.c. non sia finalizzata a rendere lecito l’atto, ma a dare rilievo a quelle circostanze in presenzadelle quali non si perfeziona la fattispecie di cui all’art. 2043 c.c. e, conseguentemente, l’integrale produzione dei suoi effetti. In tale evenienza il danno prodotto è e rimane ingiusto e come tale necessitante di riparazione. Tuttavia, la natura degli interessi coinvolti giustifica l’adozione di misure diverse dal risarcimento; misure che potranno consistere o nell’esclusione totale della responsabilità ovvero in una sua attenuazione. Nello stato di necessità, l’attenuazione della responsabilità, trova, allora, la sua ragion d’essere non in una presunta liceità del fatto necessitato, ma nell’esistenza di interessi entrambi meritevoli di tutela, quello del soggetto necessitato che si vede costretto, per evitare un danno grave alla persona, a ledere l’altrui sfera giuridica e quello del terzo che subisce la lesione; terzo che è estraneo alla situazione di necessità. Nel contemperare i contrapposti interessi il legislatore, così come non ha voluto avvilire l’interesse del soggetto necessitato, non ha al contempo voluto sacrificare l’interesse del terzo, prevedendo coerentemente l’attribuzione a favore di quest’ultimo di una indennità.
Va da sé che, affinché possa escludersi o attenuarsi la responsabilità, è necessario che il comportamento del soggetto agente si sia attenuto ai limiti previsti dalla relativa normativa.
Stato di necessità. La misura dell’indennità è rimessa all’equo apprezzamento del giudice.
L’indennità costituisce il doveroso riconoscimento del sacrificio “imposto” a tutela di un bene, ed è distinta per funzione e struttura dal risarcimento del danno di cui all’art. 2043 c.c. L’indennità assolve, quindi, ad una funzione equitativa essendo la stessa finalizzata non a riparare l’intero pregiudizio subito dal terzo, ma a determinare il giusto equilibrio tra interessi entrambi meritevoli di tutela. Ne consegue che la sua quantificazione non potrà avvenire in base ai parametri di cui all’art. 2056 c.c., che rinvia agli artt. 1223 ss. c.c.
Non a caso il legislatore, nel rimettere al giudice il compito di stabilirne il quantum, non ha rinviato tout court all’art. 1226 c.c. relativo alla valutazione equitativa del danno ed operante quando il danneggiato non sia in grado di dare la prova del suo preciso ammontare, ma ha disposto che la determinazione avvenga in base all’equo apprezzamento del giudice. Tale criterio, infatti, postula una comparazione tra l’interesse del danneggiante e del danneggiato, tenendo conto delle circostanze concrete di verificazione del danno, quali ad es. il pregiudizio evitato e il comportamento tenuto dai soggetti coinvolti. Il legislatore nello stabilire che “l’indennità è dovuta”, nell’evidenziare che l’indennità non è eventuale, ma che il danneggiato ha verso di essa un diritto, in ciò peraltro distinguendola da altre indennità (si pensi all’indennità di cui all’art. 2047, comma 2, c.c.), nulla ha stabilito in ordine al soggetto su cui grava. Se in linea di massima l’obbligazione graverà sul soggetto necessitato ovvero su coloro che rispondono del fatto del terzo, ci si è chiesti se del relativo danno possa essere chiamato a risponderne il terzo che, con il suo comportamento colposo, abbia causato la situazione di pericolo.
*Contributo estratto dal “Manuale di diritto civile” di Francesco Caringella, Luca Buffoni – XIV edizione – Dike giuridica editrice – Febbraio 2025