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Le fonti*

Le fonti*

1.   Profili generali: il pluralismo delle fonti e i criteri di identificazione delle stesse

Le fonti del diritto sono gli atti e i fatti idonei a produrre le norme giuridiche che nel loro complesso costituiscono il diritto oggettivo, ossia l’ordinamento giuridico.

Come emerge dalla stessa definizione, nell’ambito delle fonti di produzione possono distinguersi due categorie: le fonti-atto (o atti normativi) e le fonti-fatto (o fatti normativi).

Le prime sono manifestazioni di volontà espressamente rivolte alla produzione di norme giuridiche, provenienti da un organo dello Stato-apparato o di altro soggetto a ciò legittimato dalla Costituzione o da altra fonte sulla produzione. Di regola, esse trovano formulazione in un testo scritto.

Le seconde, al contrario, hanno carattere prevalentemente non scritto e si risolvono in uno o più accadimenti o comportamenti oggettivi. Tipica fonte-fatto è la consuetudine, fondata sul ripetersi di un determinato comportamento per un certo lasso temporale e con la convinzione della sua giuridica necessità. A differenza di quanto avviene nel diritto internazionale dove, come si è visto, la consuetudine assume un ruolo di assoluta centralità, nell’ordinamento italiano, come in tutti i moderni ordinamenti nazionali, le fonti del diritto sono essenzialmente fonti-atto, mentre la consuetudine ha una rilevanza secondaria e marginale, essendo ammissibile solo praeter legem o secundum legem, mai contra legem.

Il nostro ordinamento, come tutti gli ordinamenti giuridici moderni, è caratterizzato dal pluralismo delle fonti del diritto.

Il carattere pluralistico del sistema delle fonti pone due ordini di problemi: l’esatta individuazione degli atti (o dei fatti) effettivamente qualificabili come fonti normative e, in secondo luogo, la determinazione dei rapporti fra le stesse, ossia la determinazione dei criteri atti a risolvere le antinomie fra le norme giuridiche dalle stesse prodotte.

Quanto al primo profilo, soccorrono due criteri, il criterio formale e il criterio sostanziale.

Il criterio formale consiste nella qualificazione espressa dell’atto come avente natura normativa a opera di un’altra norma dell’ordinamento, ossia delle c.d. fonti sulla produzione del diritto. Spetta, infatti, a ogni ordinamento positivo determinare, mediante la scelta degli organi e delle procedure per la formazione delle norme, quali siano le fonti di produzione. Peraltro, le norme sulla produzione, preordinate all’estrinsecazione delle fonti di produzione, sono esse stesse norme che producono diritto e, dunque, fonti di produzione, nella misura in cui selezionano i soggetti e gli atti abilitati a innovare l’ordinamento e le modalità attraverso cui l’innovazione deve avvenire.

In proposito, l’art. 1 delle disposizioni preliminari al Codice civile contiene un elenco di fonti del diritto (leggi, regolamenti, norme corporative e usi) evidentemente incompleto e non più attuale. Per un verso, è ormai del tutto anacronistica la menzione delle norme corporative, abrogate con la soppressione dell’ordinamento corporativo; per altro verso, esso non include atti che già al momento della sua entrata in vigore erano senz’altro considerati fonti del diritto (bandi militari e ordinanze ex artt. 216 e 217 t.u.l.p.s.) e fonti a esso sopravvenute quali, in primis, la Costituzione, le fonti degli enti territoriali e le fonti sovranazionali (europee e internazionali).

Il criterio sostanziale valorizza, invece, il contenuto intrinseco dell’atto che per avere natura (sostanzialmente) normativo deve possedere i caratteri della astrattezza, della generalità e della innovatività.

L’astrattezza ricorre allorché le disposizioni contenute nell’atto siano suscettibili di indefinita ripetibilità e applicabilità a fattispecie concrete, a differenza delle previsioni degli atti non normativi che non disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici, ma specifici rapporti giuridici sorti in concreto, esauriti i quali l’atto cessa di produrre i propri effetti.

La generalità attiene all’indeterminabilità sia ex ante che ex post dei destinatari dell’atto. Come si avrà modo di ribadire nel prosieguo (vedi, infra §7.1), se l’indeterminabilità a priori è da sé sola idonea a distinguere le fonti del diritto, come atti produttivi di norme giuridiche, dai provvedimenti amministrativi individuali, è il requisito della indeterminabilità dei destinatari anche a posteriori che realmente connota e contraddistingue le fonti del diritto, distinguendole degli atti amministrativi generali (come i bandi di gara e di concorso). Questi ultimi, infatti, hanno destinatari indeterminabili a priori, ma certamente determinati a posteriori; e ciò per la circostanza che, conformemente alla propria natura amministrativa, non sono destinati a regolare una serie indeterminata di casi, bensì un caso, una vicenda particolare e determinata, esaurita la quale vengono meno anche i loro effetti.

Infine, l’ultimo criterio è l’innovatività, diretto corollario dei predetti caratteri di astrattezza e generalità, il quale consiste nell’idoneità dell’atto a modificare l’ordinamento giuridico. In proposito, peraltro, si riscontra una divergenza di opinioni. Secondo una prima tesi, particolarmente apprezzata nella giurisprudenza costituzionale, l’innovatività consiste nell’attitudine dell’atto a modificare l’ordinamento in modo stabile e definitivo, con la conseguenza che non posseggono tale carattere gli atti abilitati soltanto a derogarvi (si considerino ad esempio le ordinanze di necessità e urgenza). Secondo una diversa ricostruzione invece, anche gli atti che contengono precetti temporanei, che innovano cioè la disciplina vigente per un periodo circoscritto, hanno carattere normativo, essendo sufficiente che il contenuto abbia carattere generale e astratto.

I descritti criteri, formale e sostanziale, assumono diverso peso con riguardo alle fonti primarie (leggi e atti aventi forza di legge) e a quelle secondarie (e a fortiori a quelle c.d. terziarie).

Con riguardo alle prime, l’orientamento prevalente della dottrina e della giurisprudenza (anche costituzionale) ritiene che sia necessario e sufficiente il solo criterio formale.

Per un verso, sono fonti primarie solo quelle qualificate come tali dalla Carta Costituzionale e adottate mediante la procedura di approvazione prefigurata dalla Carta medesima; per altro verso, il rispetto di siffatta procedura è da sé solo sufficiente ai fini della qualificazione dell’atto come normativo, senza che sia necessario (pur se normalmente è così) che esso abbia un contenuto generale e astratto. Le fonti primarie sono, dunque, un rigido numerus clausus quanto al nomen, mentre sono atipiche con riferimento al contenuto. Ciò, come si dirà (vedi, infra §6.2.1) ha consentito alla Corte costituzionale di ritenere ammissibili le c.d. leggi-provvedimento, che si caratterizzano per un contenuto puntuale e concreto, sostanzialmente amministrativo.

Altrettanto non vale – secondo i più – per le fonti secondarie espressione del potere normativo (o di autonomia normativa) attribuito dal Legislatore alle Amministrazioni centrali (Governo, Ministri) o periferiche (Regioni, Province, Comuni).

Come affermato della Corte costituzionale già con la sent. 3 giugno 1970, n. 79, nell’ambito di un sistema di fonti organizzato gerarchicamente, le fonti di rango primario e, in particolare, la legge, possono innovare il quadro delle fonti a livello secondario. Queste ultime, pertanto, pur nel rispetto dei limiti individuati dai principi di legalità e di riserva di legge, rappresentano uno spettro in continua evoluzione, aperto a nuove specie e modelli stabiliti dalla legge. In quanto atti soggettivamente amministrativi (adottati ciò dalla Amministrazione), ai fini della loro qualificazione come fonti normative idonee ad innovare stabilmente l’ordinamento giuridico assume rilievo determinate il criterio sostanziale, ossia il loro contenuto generale e astratto. Rinviando, sul punto, al successivo §7.1, occorre sin d’ora rilevare, infatti, come proprio i requisiti sostanziali di generalità e astrattezza del contenuto dell’atto valgano a differenziare le fonti del diritto secondarie dagli atti amministrativi generali che tali caratteri non hanno.

Sono, infine, connotate da intrinseca atipicità le fonti c.d. terziarie (tertiary rules, tipiche del diritto amministrativo) che ricomprendono atti di natura non regolamentare, spesso privi di un pieno ed effettivo valore cogente o, comunque, di una diretta rilevanza giuridica esterna, quali le linee guida, le raccomandazioni e le norme interne alle singole pubbliche amministrazioni, vedi §10 e ss.

2.   Il regime giuridico comune degli atti normativi

La qualificazione, sulla base degli esposti criteri, di un atto come normativo comporta l’applicazione di un insieme di regole e principi per essi specificamente valevoli, costituenti un vero e proprio regime giuridico comune a tutte le fonti del diritto.

In primo luogo, il principio iura novit curia. Mentre, cioè, per ogni altro elemento rilevante ai fini della statuizione sulla singola controversia (fatti storici, atti giuridici non normativi, quali atti negoziali o amministrativi) trovano applicazione le generali regole in materia di onere probatorio ex art. 2697 c.c., le norme giuridiche applicabili alla fattispecie concreta si presumono conosciute dal giudice e non sono, pertanto, oggetto di alcun onere dimostrativo in capo alla parte che abbia interesse alla loro applicazione.

In secondo luogo, il principio ignorantia legis non excusat. Le norme giuridiche derivanti da fonti del diritto riconosciute si presumono conosciute non solo dal giudice chiamato a statuire sulla controversia, ma anche dai singoli consociati, che non possono addurre a giustificazione del proprio comportamento antigiuridico l’ignoranza della norma stessa. Peraltro, a seguito della storica pronuncia della Consulta 24 marzo 1988, n. 364, in materia penale e, per estensione, nell’ambito di tutto il diritto punitivo-sanzionatorio (anche amministrativo), la presunzione di conoscenza della legge, un tempo reputata assoluta e insuperabile, ha oggi carattere pacificamente relativo, ritenendosi scusabile l’ignoranza della norma giuridica invincibile e inevitabile per l’homo eiusdem generis et qualitatis.

In terzo luogo, il regime del ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione. Solo la violazione da parte delle autorità giurisdizionali ordinarie, nell’esercizio delle loro funzioni, di norme derivanti da fonti del diritto è censurabile in Cassazione per violazione di legge (art. 111, comma 7, Cost., art. 360, comma 1, c.p.c. e art. 606, comma 1, c.p.p.). Del pari, l’invalidità degli atti amministrativi per violazione di legge o incompetenza (art. 21octies, L. 241/1990) è sindacabile dal G.A. solo in caso di contrasto con norme poste da fonti del diritto riconosciute.

Ancora, sul piano ermeneutico, le fonti del diritto sono soggette a un proprio specifico apparato di regole interpretative (di cui agli artt. 12 ss. disp. prel.) che va tenuto distinto da quello valevole per l’interpretazione dei negozi giuridici quali atti di autonomia privata (artt. 1362 ss. c.c.). Pur essendo accomunate dal fine di accertare il corretto significato da attribuire a un insieme di parole, l’interpretazione di un atto normativo e quella di un negozio giuridico sono attività fra loro profondamente diverse. Mentre, infatti, l’interpretazione contrattuale mira ad accertare e chiarire il significato di un atto di autonomia privata secondo l’intento dei suoi autori, l’interpretazione di un atto normativo tende a individuare il contenuto precettivo di una regola dell’ordinamento secondo la sua funzione sociale, ossia il senso di una volontà impersonale traslata in un testo scritto.

Infine, il principio di irretroattività delle norme giuridiche che trova esplicita codificazione nell’art. 11, comma 1, disp. prel c.c. ai sensi del quale «la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo». Tale disposizione, secondo unanime orientamento, enuncia un principio generale dell’ordinamento, valevole non solo per la legge in senso tecnico, ma altresì per tutte le altre fonti del diritto: le attività dei soggetti devono essere valutate e qualificate a livello giuridico, sulla base di norme in vigore al momento dello svolgimento della condotta e non sulla base di norme non conosciute da detti soggetti, poiché sopravvenute rispetto a quel tempo.

La ratio del principio di irretroattività delle norme giuridiche riposa nei principi di certezza dei rapporti giuridici e di tutela del legittimo affidamento del cittadino che si autodetermina in funzione del quadro normativo attualmente esistente e deve poter ragionevolmente confidare sulla stabilità dello stesso.

Occorre peraltro precisare che il principio di irretroattività delle norme giuridiche non ha la medesima forza in tutti gli ambiti dell’ordinamento.

In materia penale, esso ha rango costituzionale trovando esplicito riconoscimento nell’art. 25, comma 2, Cost. (oltre che nell’art. 7 della CEDU) ai sensi del quale «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». Come chiarito al Cap. 1, §2.2.3, per effetto dell’influenza della CEDU e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il principio di irretroattività ha oggi rango costituzionale anche con riguardo al diritto amministrativo sanzionatorio, ogni qual volta le sanzioni formalmente amministrative risultino avere carattere sostanzialmente penale alla luce dei c.d. criteri Engel e Ozturk.

Al di fuori del diritto punitivo-sanzionatorio (sia esso penale o amministrativo), e cioè nel diritto civile e nei restanti settori del diritto amministrativo, la regola dell’irretroattività non ha, invece, rango costituzionale, trovando esplicitazione solo nel predetto art. 11 delle Preleggi, ossia in una disposizione di legge ordinaria, come tale senz’altro suscettibile di deroga da parte di successive norme di pari rango primario.

Cionondimeno, come posto in rilievo dalla dottrina, si tratta pur sempre di un principio generale dell’ordinamento giuridico, di talché le deroghe allo stesso devono ritenersi di natura eccezionale. Ne consegue che le stesse devono essere esplicite (l’efficacia retroattiva della norma deve cioè essere chiara ed espressa, non potendo essere ricavata in via meramente interpretativa) e sorrette da un’adeguata causa giustificatrice, mirando a tutelare interessi di rango almeno pari a quelli tutelati dal principio generale di irretroattività. Come ripetutamente affermato dal giudice delle leggi, ancorché non sia vietato al legislatore (salva la tutela privilegiata riservata alla materia penale dall’art. 25, comma 2, Cost.) emanare norme retroattive – siano esse di interpretazione autentica oppure innovative con efficacia retroattiva – esistono, comunque, limiti costituzionali alla retroattività legislativa. Tali limiti vengono individuati nel principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, nella tutela dell’affidamento, nonché nel rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario; limiti corrispondenti ai principi dettati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale valorizza alcuni elementi ritenuti sintomatici dell’uso distorto della funzione legislativa (cfr., ex plurimis, Corte cost. 12/2018, 191/2014).

Un’ipotesi “generale” di norma retroattiva è rappresentata dalle norme di interpretazione autentica, mediante le quali il medesimo organo che ha emanato una determinata disposizione normativa interviene a chiarirne il corretto significato. Infatti, si limita a individuare il significato di un testo previgente senza innovarlo e, infatti, la norma di interpretazione autentica è fisiologicamente retroattiva.

Invero, la possibilità di produrre effetti (pur se di carattere meramente esegetico) su fattispecie antecedenti, ha imposto l’adozione di cautele da parte della Corte costituzionale, volte a prevenire abusi da parte del potere legislativo, finalizzati a far retroagire, sotto l’etichetta dell’interpretazione autentica, norme che in realtà innovano l’ordinamento e non si limitano a chiarire il significato di un precedente atto normativo. In proposito, la Consulta ha più volte chiarito che i requisiti necessari affinché una norma di interpretazione autentica possa definirsi effettivamente tale ed essere, così, legittimamente retroattiva sono: a) l’esistenza di un dubbio interpretativo in ordine al corretto significato da attribuire a un previgente testo normativo; b) l’individuazione, da parte della norma interpretativa, di uno tra i possibili significati ragionevolmente desumibili dal tenore letterale della disposizione interpretata (ex multis, Corte cost. 12 aprile 2017, n. 73).

Per una recente applicazione vedi Cons. Stato, Ad. Plen., 12/2024, secondo cui, dando vita a una norma interpretativa rispettosa dei requisiti esposti, l’art. 50 della L. 388/2000, a legittimamente interpretato l’art. 4 della L. 425/1984 sull’allineamento stipendiale, chiarendo che la relativa disciplina doveva intendersi abrogata sin dalla data di entrata in vigore del D.L. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 agosto 1992, n. 359, il quale, aveva soppresso l’istituto dell’allineamento stipendiale. Di qui, la perdita di efficacia delle decisioni su ricorso straordinario adottate in senso contrario a detta ermeneutica, decisioni che, non avendo all’epoca natura giurisdizionale ed effetto di giudicato, non resistono ai naturali effetti ex tunc delle leggi in parola (sulla parziale giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario vedi anche Ad. Plen. 11/2024; cfr. Parte XI, Cap. 5, §2 e 3).

[…]

*Contributo estratto da “Manuale ragionato di diritto amministrativo – parte generale” di F. Caringella – Dike giuridica editrice – Ottobre 2024