Nel delitto di maltrattamenti in famiglia, la gelosia può rilevare ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo?
La gelosia dell’agente – quale sia stata la causa che ebbe a generarla e dunque anche quando la stessa possa avere valide ragioni di fondamento -, seppur contestualizzata in un quadro di crescente declino del relativo rapporto sentimentale e della prevedibile conflittualità che tanto comporta, non può fungere da valida ragione giustificativa idonea ad elidere il dolo dei maltrattamenti in famiglia laddove sia stata foriera di comportamenti morbosi e ossessivi, che si siano rilevati tali da incidere sul regime di vita quotidiana, familiare, sociale e lavorativa della persona offesa, causandone limitazioni e condizionamenti di assoluto rilievo destinati a renderne non tollerabile il portato, secondo canoni oggettivi e prescindendo dal grado di resilienza della vittima. – Cass., sez. VI, 13 dicembre 2023, n. 4000.
Nella sentenza in esame, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione, su ricorso del Procuratore generale e della persona offesa, si è pronunciata in ordine alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) anche in relazione all’elemento soggettivo, con particolare riguardo al ruolo assolto dal sentimento di gelosia dell’imputato nei confronti della persona offesa, anche laddove fondato su comportamenti effettivamente adulteri di quest’ultima.
Nel caso di specie, infatti, la Corte di Appello aveva ribaltato la sentenza di condanna, emessa in primo grado, per il reato di maltrattamenti ai danni della convivente, aggravato ai sensi del comma 2 (per essere stato commesso alla presenza dei due figli minori), pervenendo così all’assoluzione dell’imputato. A tal fine, la Corte territoriale aveva valorizzato il fatto che la persona offesa avesse dapprima negato e poi ammesso la sua relazione extraconiugale, ritenendo tale circostanza idonea ad inficiare l’attendibilità del racconto della stessa. Inoltre, secondo la Corte, le condotte dell’imputato (come i controlli eseguiti per monitorare gli spostamenti della persona offesa, o i momenti di conflittualità tra quest’ultima e l’imputato, anche se sfociati in alcune occasioni in contegni minacciosi) dovevano essere valutate proprio in relazione all’effettiva sussistenza di una relazione adultera della donna, quali comportamenti non determinati dall’intenzione dell’imputato di maltrattare e sopraffare la donna, quanto piuttosto atti a dimostrare alle persone a lui vicine l’effettiva realtà dell’adulterio.
Il procuratore generale presso la Corte di appello territorialmente competente e la difesa della parte civile hanno quindi proposto ricorso in Cassazione, ritenendo la sentenza afflitta sia da violazione di legge relativamente alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, sia da vizi della motivazione con riguardo specifico alla ritenuta insussistenza del dolo di maltrattamenti.
La Corte di Cassazione preliminarmente precisa che, in caso di riforma dell’originaria sentenza di condanna, occorre che il giudice dell’appello riesamini il materiale probatorio valutato dal giudice di primo grado e giustifichi in modo adeguato le ragioni dell’overturning, non bastando all’uopo che si limiti «ad inserire nella struttura argomentativa della riformata pronuncia delle generiche notazioni critiche di dissenso» (così anche Cass. pen., Sez. Un., 21 dicembre 2017, n. 14800).
Sulla base di questa premessa, la Suprema Corte accoglie il ricorso, ritenendo che, nel caso di specie, dalla sentenza emessa dalla Corte territoriale emergano dei decisivi vuoti argomentativi e delle incongruenze logiche tali da inficiarne la motivazione in ordine al ribaltamento della sentenza di condanna.
In relazione al delitto di maltrattamenti, infatti, afferma la Sezione Sesta della Corte di Cassazione, esso può dirsi configurato anche quando le condotte del reo si risolvano in «effettive vessazioni psicologiche potenzialmente in grado, in termini di oggettività, di prevaricare la vittima arrecandole durevoli sofferenze morali», anche se non connotate da violenza fisica o verbale o in atteggiamenti ingiuriosi e dispregiativi. Non vale a fungere da valida ragione giustificativa di tali condotte – e quindi ad elidere il dolo di maltrattamenti – il sentimento di gelosia dell’agente, anche ove sia motivato da infedeltà della persona offesa, allorquando tale atteggiamento trasmodi in comportamenti ossessivi e possessivi, oggettivamente tali da determinare nel partner «una condizione di sofferenza psico-fisica non semplicemente transitoria». E ciò a prescindere dall’effettiva concretizzazione di tale stato emotivo, in coerenza con la qualificazione della fattispecie incriminata dall’art. 572 c.p. come reato di condotta, e non di evento. In caso contrario – se, cioè, si facesse dipendere la sussistenza del reato dalla concreta realizzazione del turbamento psico-fisico della vittima – si giungerebbe a «conferire alla fattispecie una connotazione relativistica, in ragione della diversa sensibilità della vittima o del suo grado di resistenza psichica individuale: dato, quest’ultimo, tuttavia legato ad una serie di variabili non predeterminabili ed eterogenee (non soltanto, cioè, fisiche e psicologiche, ma anche sociali e culturali), che finirebbe per assegnare o meno penale rilevanza a condotte oggettivamente identiche, in tal modo inficiando la tassatività della disposizione incriminatrice, peraltro mediante l’introduzione di un elemento da essa non richiesto» (in questo senso, da ultimo, anche Cass. pen., sez. VI, 20 settembre 2023, n. 43307).
La decisione della Corte di appello risulta, secondo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, non coerente con l’orientamento sopra descritto, in quanto, nel caso di specie, il reo si è reso responsabile di ripetuti atti vessatori, espressivi di un controllo della vita relazionale della vittima, invasivi ed opprimenti (chiamate continue, pedinamenti, installazione di un registratore al fine di ascoltare le chiamate della convivente in sua assenza), tali da precluderle anche di svolgerle attività lavorative, nonché, in alcune ipotesi, anche gravemente minacciosi, talvolta in presenza dei figli e di terzi, così come emerge dalle dichiarazioni della vittima. Di contro, rileva la Cassazione, la Corte di Appello non ha rilevato né la contraddittorietà né la mancanza di efficacia probatoria di tali dichiarazioni, ma si è limitata a sminuire, senza adeguatamente motivare sul punto, la rilevanza delle condotte poste in essere dall’imputato, sia in termini di reiterazione, che in termini di afflittività, ritenendo i comportamenti del reo animati dall’intenzione di verificare e provare la verità del legame extraconiugale intrattenuto dalla vittima. Tuttavia, tale osservazione, oltre a non essere adeguatamente motivata, non risulta conferente rispetto al carattere ossessivo, prevaricatore e invasivo delle condotte poste in essere dall’imputato ai danni della vittima, tale evidentemente da esorbitare il mero intento di verifica dell’infedeltà della donna, e quindi essere potenzialmente e oggettivamente foriero di un regime di vita intollerabile, a prescindere poi dalla effettiva condizione di timore o prostrazione concretizzata in capo alla vittima.
Per questi motivi, la Suprema Corte annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d’appello territorialmente competente.
*Contributo in tema di “Maltrattamenti in famiglia“, estratto da Obiettivo Magistrato n. 72 / Marzo 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica