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Le Società Pubbliche*

Le società pubbliche

  1. Società pubbliche e forme private: un ossimoro apparente

Le pubbliche amministrazioni possono istituire o partecipare a società di capitali regolate dal diritto civile. Storicamente il fenomeno delle società pubbliche è legato a tre cause principali:

  1. a) l’affermarsi dello Stato imprenditore, come il fenomeno delle partecipazioni statali, a partire dagli anni ’30 del secolo scorso;
  2. b) la privatizzazione formale (o fredda) di enti pubblici negli anni Novanta sempre del secolo scorso;
  3. c) l’esternalizzazione di attività tradizionalmente svolte da apparati amministrativi.

Da un’indagine condotta dall’Istat nel 2015 è emerso che attualmente nel nostro Paese ci sono 7.757 organismi attivi a partecipazione pubblica, di cui circa 5.000 sono società pubbliche, con a carico complessivi 953.100 impiegati.

Con riferimento alle società, sempre nel 2015, la Corte dei Conti ha evidenziato che meno della metà svolgono attività di servizio pubblico, le restanti si occupano esclusivamente di attività strumentali.

Il modello delle società pubbliche, pur non avendo una base costituzionale ed europea esplicita, trova un’indiretta legittimazione nell’art. 43 Cost. (mancata riserva allo Stato dei servizi pubblici essenziali) e nell’art. 345 TFUE (principio di indifferenza comunitaria agli assetti proprietari degli organismi chiamati alla gestione dei servizi pubblici).

La creazione di società nella mano pubblica ha posto da subito problemi di inquadramento formale e, quindi, di disciplina sostanziale.

  1. Il sintagma «società pubbliche»: prevale il sostantivo o l’aggettivo?

Lo stesso sintagma «società pubbliche», vero e proprio modello bon a tòut faire, ha indotto gli interpreti a schierarsi di volta in volta, nel senso della prevalenza, ai fini delle regole applicabili, del sostantivo o dell’aggettivo, ossia della natura societaria o del carattere comunque pubblico del modello.

Questo sintagma ha nella pratica racchiuso una pluralità di figure tra loro profondamente eterogenee, che comprende società totalmente pubbliche, pubbliche maggioritarie e minoritarie; società partecipate in modo diretto e indiretto; società che esercitano attività amministrative in forma privata (ossia società che integrano moduli organizzativi di funzioni amministrative), società che operano sotto la protezione pubblica, società monopolistiche in settori ancora non liberalizzati e imprese pubbliche che sottostanno alla legge del mercato.

È emersa, soprattutto, una dicotomia tra società che svolgono attività di impresa, in cui si registra una separazione effettiva tra socio e società, con la conseguenza che la qualificazione pubblicistica dell’azionista non si estende alla società; e società caratterizzate, come nel caso dell’in house providing, da una forte contaminazione tra socio e società, in cui si registra la propagazione della mano dell’azionariato pubblico sulla natura e sul funzionamento della società. Le società del primo tipo non hanno suscitato particolari problemi: posto, infatti, che l’unico collegamento con lo Stato e gli enti pubblici è rappresentato dalla titolarità pubblica del pacchetto azionario o di una sua parte consistente, si è ragionevolmente concluso che trattasi di enti soggetti esclusivamente al diritto comune, in cui la pubblica amministrazione esercita esclusivamente il diritto di azionista in assemblea (peraltro con regimi derogatori come quello di cui all’art. 2449 c.c.).

Una specifica caratterizzazione presentano le società pubbliche che perseguono finalità diverse dallo svolgimento di una pura attività d’impresa e che, sono, per questo, sottoposte a un regime pubblicistico. Si è parlato di semi-amministrazioni (o società speciali o società di diritto pubblico o eccentriche, esorbitanti), a stigmatizzare un uso improprio dello strumento societario (Rai, Agecontrol). Si è parlato, in particolare, di abuso della forma societaria, ossia di uso distorto di uno strumento privatistico, non per svolgere attività imprenditoriali di produzione di beni e servizi sul mercato, ma per assolvere a compiti pubblicistici propri delle strutture amministrative.

  1. Enti pubblici in forma societaria o soggetti privati equiparati?

Nella logica comunitaria (vedi Cap. 1, §9), indifferente alle forme e al nomen, e più attenta agli aspetti sostanziali ed economici, un ente va invece considerato pubblico quando, aldilà delle sembianze assunte, risulta titolare di un potere pubblico ed è sottoposto ad un controllo anch’esso pubblicistico, indipendentemente dalla circostanza che abbia una cornice formalmente privatistica.

Ne consegue, in ossequio al c.d. principio della non decisività della della forma societaria che, ove una società venga privatizzata solo nella forma, pur restando soggetta al controllo dallo Stato e indirizzata alla realizzazione del fine pubblico da perseguire con moduli amministrativistici, dovrà considerarsi un ente pubblico ed essere soggetta, pertanto, alla relativa disciplina.

Si pone allora il problema di stabilire i criteri da seguire per determinare se e in che misura le singole società possano essere qualificate come enti pubblici o ad essi quoad materiam equiparate. Ci si chiede se tali società possano essere enti pubblici in senso assoluto o essere considerati tali solo nei campi in cui operi una normativa che li equipari alle pubbliche amministrazioni, in base al fine perseguito o al principio comunitario dell’effetto utile.

La seconda soluzione è senz’altro preferibile. Si delinea, al riguardo, un concetto di ente pubblico elastico, secondo il quale detti organismi, più che essere enti pubblici in ogni loro sfera di azione e di manifestazione, vanno considerati, o meno, enti pubblici in riferimento ai singoli istituti che di volta in volta vengono in considerazione ove esista una legge, di deroga alla normativa di diritto comune, che li equipari agli enti pubblici (l’accesso, le gare di appalto, la selezione del personale, il controllo contabile, la responsabilità).

Emerge, in definitiva, una logica, avallata anche dalla legge, che plasma il concetto di ente pubblico in funzione della specifica disciplina da applicare, rinunciando a definizioni ontologiche e universali (vedi art. 7, comma 2, del codice del processo amministrativo, di cui si è detto nel Cap. 1, §8.2.7).

La qualificazione di una società pubblica come ente pubblico “universale” è infatti ostacolata dalla considerazione che la piena sottoposizione a tutte le regole pubblicistiche renderebbe incomprensibile la scelta legislativa o amministrativa di ricorrere a uno strumento privatistico, più duttile e meno formale nelle sue linee di azione e di organizzazione. Ne discende che, quanto meno con riguardo ai profili organizzativi (atti di auto-organizzazione, funzionamento dei servizi e degli uffici, organi sociali, rapporti tra soci e rapporti di lavoro), non può che applicarsi la normativa di diritto comune la cui maggiore elasticità è alla base della scelta del modello societario.

In definitiva una società pubblica può essere un ente pubblico solo nei campi in cui operi una norma espressa che, in conformità al principio di riserva di legge e di legalità, lo doti di poteri pubblici e di uno statuto di diritto pubblico. Non è, invece, convincente la tesi volta ad affermare la natura pubblica di un ente in assenza di una norma espressa di equiparazione, in considerazione della maggiore idoneità della disciplina pubblica ad assicurare il perseguimento e la tutela di determinati interessi. Soggetti aventi natura privata possono essere assoggettati a una regolazione in parte derogatoria rispetto alla normativa iure privatorum al fine di tutelare determinati interessi pubblici (si vedano gli obblighi di evidenza pubblica posti a carico di organismi di diritto pubblico e imprese pubbliche), ma non possono vedere vanificata la loro veste privatistica e gli scopi della loro istituzione attraverso l’applicazione di un regime totalmente di public law (Torchia): d’altra parte l’amministrazione non può rivolgersi al diritto privato, per poi disconoscerlo applicando una disciplina totalmente pubblicistica.

L’amministrazione non può, in altri termini, rivolgersi al diritto privato per poi disconoscerlo, così disattendendo il fondamentale insegnamento secondo cui “l’interesse pubblico può servirsi del diritto privato ma non può chiedere al diritto privato più di quanto esso può dare e deve accettare dal diritto privato ciò che gli è essenziale” (Oppo).

La materia variegata delle società pubbliche trova oggi finalmente una disciplina unitaria, che contribuirà alla soluzione dei problemi di inquadramento e di disciplina fin qui prospettati.

Ci si riferisce al D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, attuativo della legge delega 124/2015, che ha dato vita al Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica.

Come si è già asserito e si vedrà anche in seguito, questa normativa ha sostituito la citata teoria della “neutralità della forma societaria”, per cui la semplice utilizzazione del modello societario non vale, per ciò solo, a escludere la natura pubblicistica dell’ente, con il “principio della neutralità della partecipazione pubblica” a una società privata. La società a partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo per il rapporto di dipendenza con l’ente pubblico.

Come chiarito dall’art. 7, comma 2, del codice del processo amministrativo, una società non può essere un ente strutturalmente e istituzionalmente pubblico, ma può essere equiparata a un ente pubblico in presenza di una norma.

Si rinvia alle considerazioni svolte in materia nel Cap. 1, §8 e ss.

  1. Il quadro di riferimento anteriore alla riforma del 2016

Ai fini della comprensione delle principali novità introdotte dalla riforma del 2016-2017, è, comunque, utile richiamare le principali fonti normative anteriori.

4.1  Le tipologie di società partecipate

È utile, in primo luogo, per ricondurre a sistema le considerazioni di massima prima svolte, elencare le tipologie di società a partecipazione pubblica.

Nell’universo delle società partecipate, sono individuabili le seguenti categorie:

  1. a) società a controllo pubblico, ossia «le società e (a)gli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile da parte di pubbliche amministrazioni, oppure (a)gli enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi» (art. 11, comma 2, D.Lgs. 33/2013; art. 1, comma 2, D.Lgs. 39/2013; cfr. anche: art. 34, comma 22, del D.L. 179/2012, conv. in L. 221/2012; art. 3, D.Lgs. 333/2003);
  2. b) società a partecipazione pubblica che, come oggi specificato nel D.Lgs. sulle società partecipate (art. 2, comma 1, lett. n), sono quelle a controllo pubblico, nonché le altre società partecipate direttamente da amministrazioni pubbliche o da società a controllo pubblico (comprese perciò quelle in cui la partecipazione non sia idonea a determinare una posizione di controllo quale definita, nell’art. 2, lett. b) ed m) dello stesso testo, in modo largamente coincidente con quella di cui sopra);
  3. c) società strumentali, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali «per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività» (con esclusione dei servizi pubblici locali e dei servizi e centrali di committenza), cui la norma prescrive (come a quelle «per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative» di competenza dei detti enti) di operare nell’ambito del loro «oggetto sociale esclusivo» con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non a favore perciò di altri soggetti pubblici (né in affidamento diretto o a società mista), e di non detenere partecipazioni in altre società con sede nel territorio nazionale; questo tipo di società è stato riferito dalla giurisprudenza costituzionale allo svolgimento della «attività amministrativa in forma privatistica», posta cioè in essere da società che operano per una pubblica amministrazione a differenza di quelle che esercitano attività di impresa di enti pubblici, volendo evitare la normativa «che quest’ultima possa essere svolta beneficiando dei privilegi dei quali un soggetto può godere in quanto pubblica amministrazione» (Corte cost. 229/2013, 148/2009, 326/2008; cfr. anche Cons. Stato, Ad. plen., 17/2011, id., sez. V, 22 gennaio 2015, n. 257 cit.);
  4. d) società quotate, che emettono strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati (attratte, di norma, nel regime civilistico);
  5. e) società in house: società affidatarie dirette di un servizio pubblico il cui capitale è interamente di proprietà dei soggetti pubblici affidanti e che realizza la parte più importante della propria attività con tali enti che esercitano su di essa un controllo analogo a quello sui propri servizi, secondo il modello definito anzitutto in sede comunitaria.

Deve essere rilevata l’esistenza, inoltre, quantomeno a fini descrittivi, del fenomeno delle società istituite e regolate da uno specifico atto normativo primario che ne definisce, di volta in volta, la missione, la governance e le regole di funzionamento (ad esempio, si vedano: le L. 14 aprile 1975, n. 103 e 3 maggio 2004, n. 112, il D.Lgs. 31 luglio 2005, n. 177 e la L. 28 dicembre 2015, n. 220 sulla RAI S.p.a.; l’art. 5 del D.L. 30 settembre 2003, convertito in L. 326/2003, che ha trasformato la Cassa depositi e prestiti in società per azioni).

4.2  Due temi controversi prima delle risposte del testo unico: sull’azione di responsabilità e la crisi societaria

Nel corso della complessa vicenda delle società a partecipazione pubblica, si sono poste due questioni che si richiamano per la loro oggettiva rilevanza in diritto e sul piano applicativo, nonché rispetto alla tematica generale del rapporto tra le due soggettività, distinte ma operativamente connesse, dell’ente pubblico partecipante e della società partecipata.

4.2.1  L’azione di responsabilità nei confronti degli organi di amministrazione e controllo e la relativa giurisdizione

Al riguardo, si è registrata una oscillazione che ha tenuto conto, da una parte, della natura giuridica delle società partecipate e, dall’altro, della natura pubblica delle risorse gestite dalle già menzionate società (vedi già Cap. 1, §8.2.5).

La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che, ai fini del radicamento della giurisdizione contabile, è irrilevante la veste formale, societaria o meno, dell’ente danneggiato, a causa del sempre più frequente operare dell’amministrazione al di fuori degli schemi della contabilità di Stato e tramite soggetti in essa non organicamente inseriti, sicché, in tema di riparto di giurisdizione, «il baricentro si è spostato dalla qualità del soggetto (privato o pubblico) alla natura del danno e degli scopi perseguiti».

Sulla base dell’interpretazione dell’art. 16bis, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31, la Corte di Cassazione ha stabilito un criterio generale di riparto della giurisdizione, applicabile in ogni ipotesi in cui si ravvisi la presenza di una pubblica amministrazione nel capitale sociale, nel quale l’elemento discriminante consiste nella produzione di un danno arrecato direttamente al socio pubblico o, invece, al patrimonio sociale.

La Corte di Cassazione (Cass., Sez. Un., 26806/2009), per le società non in house, ha quindi affermato la giurisdizione della Corte dei Conti solo quando l’ente pubblico partecipante sia direttamente danneggiato dall’azione illegittima dell’amministratore o del componente degli organi di controllo, mentre l’ha negata, dichiarando quella del giudice ordinario, laddove si tratti di danno al patrimonio della società, poiché il diritto societario impone di tenere ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo) da quelli che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società; il danno perciò inferto dagli organi della società al patrimonio sociale non è idoneo a configurare anche un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti: perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci – pubblici o privati – i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui originari conferimenti restano confusi ed assorbiti nell’unico patrimonio sociale; resta fermo che, potendo una minoranza dei soci della società per azioni e ciascun socio per quelle a responsabilità limitata (artt. 2393bis e 2476 cod. civ.), esercitare l’azione sociale di responsabilità, il socio pubblico che colpevolmente non provveda in tal senso, conseguendone perdita di valore della partecipazione pubblica, è sottoponibile all’azione del procuratore contabile per non essere stati correttamente esercitati i poteri di rappresentanza o decisione dell’ente partecipante (cfr. anche Cass., Sez. Un., 5491/2014; Sez. Un. 7293/2016; si vedano, a riguardo anche Cass., Sez. Un., 15 gennaio 2010, n. 519; Cass., Sez. Un., 9 marzo 2012, n. 3692).

La Cass., Sez. Un., 2 febbraio 2018, n. 2584, si è poi pronunciata sull’eccezione del difetto di giurisdizione della Corte dei conti con riguardo a una controversia sulla responsabilità per danno erariale nell’ambito di una fondazione. In particolare, nell’escludere la giurisdizione del giudice contabile a favore dell’autorità giudiziaria ordinaria, il Collegio rileva che le fondazioni, quand’anche a partecipazione pubblica, non sono qualificabili quali società in house, in quanto «la figura dell’affidamento in house trova la sua precipua collocazione nell’ambito di attività economiche da svolgersi con criteri imprenditoriali», cosa che non accade nell’ambito delle Fondazioni, le quali non perseguono scopi di lucro.

Invero la Corte, ribadendo quest’orientamento, ha affermato, quanto alle società in house, la giurisdizione del giudice contabile nei confronti dei relativi organi per danni causati al patrimonio della società, in considerazione dell’inesistenza di un rapporto di alterità soggettiva tra la società partecipata e l’ente pubblico partecipante e, perciò, dell’assenza di una vera distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società, poiché configurabile in termini di separazione patrimoniale ma non di distinta titolarità. Sul tema, da ultimo, Cass., Sez. Un., 17 maggio 2022, n. 15893 e Cass., Sez. Un., ord. 17 febbraio 2022, n. 5228).

Le indicazioni giurisprudenziali sono state recepite, come si vedrà (§5.10), dall’art. 12 del T.U. 175/2016.

4.2.2  La crisi delle società pubbliche

La questione, originata dalla previsione dell’art. 1 del R.D. 267/1942 (disciplina del fallimento e del concordato preventivo), per cui «Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici» (cfr. anche art. 2221 cod. civ.), ha prodotto, prima della soluzione positiva abbracciata dal testo unico, un ampio dibattito con diversi indirizzi giurisprudenziali.

Con un primo arresto, la Suprema Corte aveva affermato che una società per azioni, il cui statuto non evidenzi poteri speciali di influenza e di ingerenza ulteriori dell’azionista pubblico rispetto agli strumenti previsti dal diritto societario, ed il cui oggetto sociale non contempli attività di interesse pubblico da esercitarsi in forma prevalente, comprendendo, invece, attività di impresa pacificamente esercitabili da società di diritto privato, non perde la propria qualità di soggetto privato – e quindi, ove ve ne siano i presupposti, di imprenditore commerciale fallibile – per il fatto che essa, partecipata da un comune, svolga anche funzioni amministrative e fiscali di competenza di quest’ultimo (Cass., Sez. Un., 6 dicembre 2012, n. 21991).

Con il secondo arresto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. 27 settembre 2013, n. 22209), hanno affrontato funditus il tema dell’assoggettamento a procedura fallimentare delle società in mano pubblica, optando decisamente per la fallibilità delle società di capitali malgrado l’eventuale partecipazione di enti pubblici al capitale sociale (soluzione poi recepita dall’art. 14 del testo unico). Di qui la giurisdizione ordinaria sulle controversie relative alla procedura fallimentare.

I giudici di legittimità, pur dando atto dell’esistenza di specifiche normative di settore che negli ambiti da esse delimitati attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato, ne hanno ricavato a contrario «che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica». Né tantomeno, hanno aggiunto, l’eventuale mancanza di scopo di lucro che si ravvisa in alcune società in mano pubblica può condurre a risultati diversi, atteso che «il modello societario è andato negli anni assumendo connotati sempre più elastici, sostanzialmente svincolandosi dalla tradizionale alternativa fra causa di lucro e causa mutualistica».

Nella stessa sentenza, è stata altresì respinta la tesi che fonda l’esclusione dal fallimento delle società in mano pubblica in virtù del carattere necessario che le stesse assumono per l’ente pubblico.

Ad avviso della Corte, «ciò che rileva nel nostro ordinamento ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore non è il tipo di attività esercitata, ma la natura del soggetto» (c.d. “impostazione tipologica”); peraltro, la possibilità per l’ente locale, rimasto proprietario dei beni necessari all’esercizio di quel servizio, di affidarne la gestione ad un nuovo soggetto, nonché la facoltà di far ricorso all’istituto dell’esercizio provvisorio ex art. 104 della legge fallimentare, consentirebbe, ad avviso dei giudici di legittimità, di evitare il rischio di una interruzione del servizio per effetto della dichiarazione di fallimento della società in mano pubblica affidataria di un pubblico servizio.

4.2.3  In particolare, il problema del fallimento delle società in house

Il tema è stato poi affrontato, sempre prima della soluzione abbracciata dal testo unico, con riguardo all’in house.

Secondo un primo indirizzo, data l’immedesimazione tra ente pubblico socio e società in house, queste ultime risulterebbero sottratte al fallimento, in quanto, come visto, l’art. 1 della legge fallimentare esclude gli enti pubblici dal perimetro dei soggetti sottoposti a fallimento.

In tal senso, si è pronunciata la Corte d’Appello de L’Aquila, che ha ritenuto di seguire «l’orientamento che parifica, in qualche misura, le società in house agli enti pubblici, con il conseguente impedimento alla fallibilità delle stesse», così revocando il dichiarato fallimento.

Invece, a favore della tesi della “fallibilità” delle società in house vi è l’indirizzo giurisprudenziale (Cass., sez. I, 7 febbraio 2017, n. 3196) secondo cui «in tema di società partecipate dagli enti locali, la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità».

Tale orientamento è consapevole che in alcune società in house non sempre è dato rinvenire quell’attività economica a scopo di lucro che l’art. 2247 cod. civ. indica quale elemento essenziale di una società capitalistica e, quindi, indice di fallibilità. Tuttavia, l’assenza dello scopo lucrativo non sarebbe ex se sufficiente ad escludere la natura di società di capitale, qualora sia stato questo il modello espressamente prescelto, posto che, ai fini dell’applicazione dello status di imprenditore commerciale, sarebbe necessario tener conto non già dell’attività in concreto svolta, ma della natura del soggetto.

Questa opinione è stata condivisa dalla Corte d’Appello di Torino (sent. 20 dicembre 2013) che ha dichiarato fallita l’azienda di raccolta rifiuti della città di Alessandria e di altri 24 paesi della provincia.

In questo quadro, l’art. 14 del decreto di riforma detta, al comma 1, come si vedrà, una disciplina che appare risolutiva delle questioni sopra esposte.

Si statuisce, infatti, l’assoggettamento delle società a partecipazione pubblica al regime del fallimento e del concordato preventivo, indipendentemente dalla tipologia delle società e senza introdurre regimi differenziati per le società a capitale interamente pubblico e/o per le società in house; ugualmente, si prevede l’assoggettabilità, ove ricorrano i presupposti stabiliti dal D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270 e dal D.L. 23 dicembre 2003, n. 347 (convertito con modificazioni nella L. 18 febbraio 2004, n. 39), anche alla disciplina della amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi.

Vedi, sul punto, §5.8.

  1. Venti di novità: il D.Lgs. 175/2016 e il successivo D.Lgs. 201/2022

5.1  La legge delega

La ricognizione svolta nei punti precedenti consente di individuare le linee di tendenza della più recente evoluzione normativa ma mostra, anche, che questa si è sviluppata con il susseguirsi disorganico di norme particolari, ponendosi chiaramente l’esigenza di un intervento di sistema.

A questo fine è diretta la legge delega 124/2015, che, nel contesto di un ampio disegno di riorganizzazione delle amministrazioni, delega (art. 16) il Governo a riordinare la disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche (art. 18).

L’intento del legislatore delegante è quello di riordinare, in un quadro di semplificazione e di coerenza sistematica, i settori indicati e di raccogliere tutte le disposizioni rilevanti tendenzialmente in testi unici. Si tratta di un intento che, come si vedrà (§3.2.1.1 e 4.1), appare solo in parte realizzato nei decreti attuativi in esame.

La tendenza è quella di considerare giustificata l’inserzione delle norme di diritto pubblico che alterano il modello privatistico solo quando simile intervento si renda necessario o utile per la tutela di interessi pubblici. In questo senso depone il criterio di cui alla lett. a) dell’art. 18, ove si stabilisce che la regolamentazione delle società partecipate da amministrazioni pubbliche è da rintracciare nell’ambito generale della disciplina privatistica che potrà essere derogata, in base al principio di proporzionalità, cioè quando la deroga si renda necessaria per garantire che la partecipazione pubblica alla società risponda agli indicati criteri di stretta finalizzazione alla realizzazione di fini istituzionali o di gestione di servizi di interesse generale.

5.2  L’ambito di applicazione del Testo Unico

La delega è stata attuata dal D.Lgs. 175/2016, modificato dal decreto correttivo 100/2017.

In base all’art. 1, comma 1, le disposizioni del Testo Unico afferiscono a:

–   la costituzione di società da parte di amministrazioni pubbliche;

–   l’acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni da parte di tali amministrazioni, in società a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta.

Le norme del T.U. riguardano le società previste al Titolo V del Libro V del Codice civile che sono partecipate totalmente o parzialmente, direttamente o indirettamente, dalle Amministrazioni Pubbliche previste all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 165/2001.

In base al comma 3 dell’art. 1 del T.U., per tutto quanto non derogato dalle nuove disposizioni del medesimo testo normativo, alle società a partecipazione pubblica si applicano le norme sulle società contenute nel Codice civile e in leggi speciali.

5.3  L’architettura del testo unico sposa la tesi del soggetto privato eccezionalmente equiparato all’ente pubblico

Nel dibattito precedente al testo unico, autorevole dottrina reputava che, almeno in presenza di una deviazione significativa dalle regole societarie, sarebbe stato possibile qualificare dette società quali enti pubblici.

Appare oggi preferibile, perché coerente con il principio di legalità e con la disciplina dettata dall’art. 1, comma 3, del T.U. 175/2016 – confermata dal D.Lgs. 201/2022 sui servizi pubblici locali – l’osservazione secondo cui la qualificazione pubblicistica di un ente societario necessita di una base legale (non universale ma settoriale), (in forza della quale) che, a determinati fini (ad es. accesso, procedimento, controllo contabile, responsabilità erariale, appalti pubblici), la legge equipari soggetti privati a enti pubblici. In assenza di tale dato normativo non può che operare il regime privatistico coerente con la veste societaria del soggetto (come accade ad es. in materia di organizzazione, rapporti di lavoro, conflitti tra soci, funzionamento degli organi sociali).

In ossequio a vincoli costituzionali (la necessaria organizzazione amministrativa degli enti pubblici) e unionali (il principio di indifferenza della partecipazione pubblica, la parità tra imprese pubbliche e private e la soggezione integrale delle imprese pubbliche alle regime di mercato), si abbraccia così la nozione soggettiva di pubblica amministrazione e si consacra la natura privata delle società a partecipazione pubblica (vedi anche art. 7, comma 2, del codice del processo amministrativo).

Viene, quindi, sconfessata la tesi della neutralità delle forme giuridiche e della despecializzazione dei modelli organizzativi, secondo cui una società pubblica andrebbe identificata con il socio pubblico in quanto non può svolgere funzioni inibite alla pubblica amministrazione e coinciderebbe, quindi, con la P.A. di cui sarebbe pura articolazione organizzativa con vincolo di scopo (società di diritto pubblico o amministrativa o speciale o esorbitante o singolare o semi amministrazione o ente pubblico in forma societaria). In assenza di norma eccezionale (di dubbia costituzionalità) che legittimi la creazione di una vera società di diritto pubblico, abbraccia, invece, la tesi della “neutralità della partecipazione pubblica”, secondo cui viene in rilievo una società di diritto comune (con profili di specialità o esorbitanza o singolarità, ma non speciale o esorbitante o singolare) costituita per effetto di atto di autonomia privata volto a evitare proprio l’applicazione dello statuto pubblicistico a favore del più efficiente ed elastico modello societario

Non è, quindi, accettata la tesi dell’indifferenza della forma societaria in quanto nel diritto, come nella vita, la forma è sostanza (“guai a non giudicare dalle apparenze”, ammonisce Oscar Wilde): una società pubblica non può essere ente pubblico, ma solo soggetto privato equiparato a un ente pubblico (pubblica amministrazione “occasionale”) da leggi specifiche a enti pubblici per singoli settori (appalti, accesso, contabilità pubblica).

In virtù di una giurisprudenza confermata dal D.Lgs. 175/2016 e dal successivo D.Lgs. 201/2022, le società pubbliche, anche in house, operano, quindi, come soggetti di diritto privato laddove manchi una norma che le equipari, esplicitamente o implicitamente, a una p.a. ai sensi dell’art. 7, comma 2, del codice del processo amministrativo. Ne consegue che, cessata la fase pubblicistica data dagli atti amministrativi prodromici alla costituzione della società e alla scelta dell’eventuale socio, gli atti successivi che ne regolano la vita sono ordinariamente di diritto comune.

Sono, quindi, privatistici, al di fuori di norme specifiche, gli atti adottati dalle società e dai soci (come la revoca o nomina degli amministratori da parte del socio pubblico), così come sono retti dal diritto privato gli apporti tra soci (si pensi ai patti sociali e ai conflitti tra soci), tra società e dipendenti (che hanno natura privata, non privatizzata), nonché tra società e terzi.

Restano pubblicistici i procedimenti amministrativi a monte degli atti privatistici. Ci sono poi, quanto all’azione delle società, norme di equiparazione in materia di accesso, di appalti pubblici, di controllo della Corte dei conti e, limitatamente all’in house, di responsabilità contabile.

Ne derivano, tra gli altri, i seguenti corollari: dette società soggiacciono, come si è visto, alla disciplina sul fallimento; le procedure di assunzione dei dipendenti hanno carattere privatistico e sono sottoposte alla giurisdizione del giudice ordinario. Sono altresì di carattere privatistico gli atti di nomina e revoca degli amministratori da parte del socio pubblico ai sensi dell’art. 2449 c.c. (v., funditus, §5.6). Sono del pari privatistici gli atti con cui il socio pubblico decide la dimissione delle partecipazioni societarie con l’esercizio di poteri schiettamente privatistici (v., funditus, §5.5.1).

5.3.1  Eccezioni all’ambito di applicazione della riforma

Non tutte le società pubbliche saranno però soggette alla nuova disciplina.

Il T.U., all’art. 1, comma 4, fa infatti espressamente salve:

  1. a) le specifiche disposizioni, contenute in leggi o regolamenti governativi o ministeriali, che disciplinano società a partecipazione pubblica di diritto singolare costituite per l’esercizio della gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale o per il perseguimento di una specifica missione di pubblico interesse;
  2. b) le disposizioni di legge riguardanti la partecipazione di amministrazioni pubbliche a enti associativi diversi dalle società e alle fondazioni.

Il comma 5 della disposizione in esame prevede l’applicazione del Decreto 175 alle società quotate solo ove espressamente previsto. Inoltre, il medesimo regime giuridico previsto per le società quotate si applica anche alle loro società partecipate, salvo nel caso in cui le stesse siano controllate o partecipate da PP.AA. In accoglimento del parere del Consiglio di Stato, è stato precisato che, a fini della applicazione del Testo Unico, rileva la situazione di controllo o partecipazione diretta dell’amministrazione e non già quella esercitata per il tramite di società quotate.

La scelta di estromettere le fondazioni dall’ambito applicativo del T.U. trova la propria giustificazione nel fatto che esse si differenziano nettamente dalle società sia da un punto di vista strutturale che operativo e che l’eventuale intervento del potere legislativo statale in materia potrebbe creare non pochi problemi di interferenza col potere legislativo regionale concorrente, in quanto molte fondazioni sono costituite e “partecipate” dalle Regioni.

Analogo discorso vale per le associazioni: in particolare, per esplicita delega da parte dello Stato, le Regioni sono competenti in ordine al riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato per quegli enti di natura privatistica, quali, per l’appunto, le associazioni, che operano in assenza di scopo di lucro, nelle materie di competenza regionale ex art. 117 Cost. e nell’ambito del territorio regionale.

Alla base della scelta legislativa di escludere dall’ambito di applicazione del T.U. le «società di diritto singolare» v’è l’intervento operato sul golden power dal D.L. 21/2012, convertito con modificazioni nella L. 56/2012 e recentemente modificato dal D.L. 11 luglio /2019, n. 64, recante «Norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni».

Tale intervento ha attribuito al Governo speciali poteri sugli assetti proprietari e sull’operatività straordinaria di talune imprese operanti nei settori economici strategici, con particolare riferimento ai settori della difesa e della sicurezza nazionale (art. 1), ed ai c.d. “attivi strategici” (e relative società operanti) nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni (art. 2).

Al D.L. 21/2012 è seguito il D.P.R. 86/2014, ad oggetto «Individuazione delle procedure per l’attivazione dei poteri speciali nei settori dell’energia dei trasporti e delle comunicazioni», con cui il Legislatore ha disciplinato il c.d. “golden power” nei settori individuati dal precedente decreto legge, definendo le relative procedure affinché la Presidenza del Consiglio possa esercitare i propri poteri di intervento sulle decisioni relative agli assetti societari delle imprese energetiche, di comunicazioni e trasporti, comunemente ritenute di interesse strategico.

Resta pertanto tagliato fuori dall’ambito di applicazione del T.U. un piccolo, ma assai significativo numero di imprese, il cui elenco è inserito nell’Allegato A al T.U. medesimo.

5.3.2  I soggetti pubblici controllanti o partecipanti tenuti all’applicazione del T.U.

L’ambito soggettivo di applicazione del T.U. è delineato dall’art. 2.

Nello specifico, la lett. a) della suindicata norma precisa quali sono le amministrazioni pubbliche che devono soggiacere alla disciplina del T.U. Trattasi delle «amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 165/2001 i loro consorzi o associazioni per qualsiasi fine istituiti, gli enti pubblici economici e le autorità di sistema portuale».

Per agevolare l’individuazione dei soggetti pubblici controllanti tenuti all’applicazione del T.U., le lett. c) e d) del medesimo art. 2 codificano le nozioni di «controllo analogo» ricavandole dalla disciplina europea alla luce delle recenti novità introdotte dalla direttiva 24/2014/UE.

In dettaglio:

–   per controllo analogo si intende «la situazione in cui l’Amministrazione esercita su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, esercitando un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata. Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione partecipante»;

–   per controllo analogo congiunto si intende «la situazione in cui l’Amministrazione esercita congiuntamente con le altre amministrazioni su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi».

Le Amministrazioni aggiudicatrici esplicano il controllo in modo congiunto con le altre amministrazioni qualora sussistano le seguenti condizioni:

  1. a) gli organi decisionali dell’organismo controllato devono essere composti da rappresentanti di tutti i soci pubblici partecipanti, ovvero da soggetti che possono rappresentare più o tutti i soci pubblici partecipanti. Tanto a significare che ogni soggetto pubblico partecipante deve essere rappresentato negli organi decisionali del soggetto affidatario;
  2. b) i soci pubblici devono essere in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative dell’organismo controllato;
  3. c) l’organismo controllato non deve perseguire interessi contrari a quelli di tutti i soci pubblici partecipanti.

Il T.U. si rivolge altresì alle società pubbliche che svolgono servizi di interesse generale e servizi di interesse economico generale.

A mente delle lett. h) e i) dell’art. 2 in commento sono:

–    servizi di interesse generale (breviter, SIG) «le attività di produzione e fornitura dei beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell’ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività, così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale»;

–    servizi di interessi economico generale (breviter, SIEG) «i servizi di interesse generale erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su mercato». Di detti servizi pubblici di interesse economico si occupa, al fine di disciplinarne organizzzazione e gestione, il T.U. 23 dicembre 2022, n. 201, di riordino dei servizi pubblici locali (vedi Parte X).

Più nel dettaglio, nella categoria SIG sono ricomprese una serie di attività soggette ad obblighi specifici di servizio pubblico proprio perché considerate di interesse generale dalle autorità pubbliche (si pensi alle attività di servizio non economico, quali, ad esempio, il sistema scolastico obbligatorio, la protezione sociale nonché le funzioni di potestà pubblica, come sicurezza, giustizia e difesa).

I SIEG rappresentano invece una specie del genus SIG e si identificano in quei servizi resi nell’ambito di un mercato concorrenziale dove operano soggetti sia pubblici che privati.

A differenza dei SIG, i SIEG sono menzionati espressamente dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (breviter, T.F.U.E.) sub artt. 14 e 106, §2. Proprio in relazione ai SIEG si colgono alcuni elementi di differenza tra la definizione offerta dalla disciplina comunitaria e quella resa dal T.U: sebbene quest’ultimo si sia sostanzialmente allineato alla scelta definitoria del legislatore comunitario, la nozione che dà di SIEG appare più ristretta rispetto a quella comunitaria.

Il tratto fondamentale della definizione europea di SIEG è che l’attività di erogazione del servizio si svolge all’interno di un mercato attuale o anche potenziale. La giurisprudenza comunitaria ha inoltre ricompreso nei SIEG anche quelle attività che, sebbene prive di carattere economico, sono in grado di influenzare la libera concorrenza in un determinato settore commerciale. Anche il più recente approccio seguito dal Consiglio di Stato è nel senso che l’individuazione della natura economica del servizio deve avvenire sulla base dell’analisi del caso concreto.

La nozione di SIEG contenuta invece nell’art. 2 si distingue da quella europea in ragione del fatto che:

  1. a) dal punto di vista oggettivo si àncora alla circostanza per cui, senza intervento pubblico, il servizio non sarebbe stato svolto, o sarebbe stato svolto a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione qualità e sicurezza;
  2. b) dal punto di vista soggettivo viene preso in considerazione solo il servizio considerato come necessario dagli enti locali per il soddisfacimento dei bisogni delle comunità locali.

Trattasi comunque di sfumature che certamente non possono essere assunte come elementi di divergenza della disciplina statale rispetto a quella comunitaria.

5.4  Il contratto di società

Le società pubbliche, come già chiarito in precedenza (v. infra), sono soggette nei profili organizzativi alle norme iure privatorum, e in assenza di una norma di equiparazione si qualificano esse stesse come soggetti di diritto privato. Tali società sono quindi una modalità di esercizio dell’azione amministrativa che, nel perseguimento dei propri fini, può adoperare strumenti privatistici ai sensi dell’art. 1, comma 1bis, della L. 241/1990.

Ciò comporta che, se l’atto di manifestazione della volontà relativo alla modalità organizzativa (espressione di discrezionalità) ha natura pubblicistica, l’atto costitutivo della società pubblica è invece un contratto societario di diritto privato. I due atti rimangono, quindi, separati.

In altre parole, se la procedura a monte della decisione di creare o aderire a una società, o di scegliere il socio privato è, per volontà di legge e per principi generali, una procedura pubblicistica (v. Cons. Stato, Ad. plen., 3 giugno 2011, n. 10), allora l’atto prodromico a monte di un negozio societario è un atto pubblico. Analoga natura pubblicistica spetta, poi, alle decisioni attinenti all’oggetto sociale, agli scopi, al funzionamento, all’organizzazione e ai rapporti con i soci privati. L’art. 5, comma 9, informa a regole di evidenza anche la scelta del socio privato.

Nel caso in cui si stipuli un contratto in difformità rispetto all’atto pubblico ad esso prodromico (cioè in caso di difformità tra atto deliberativo pubblicistico e atto costitutivo privatistico) sarà prospettabile, secondo la dottrina più avvertita, un caso di nullità virtuale ex art. 1418 c.c. per violazione di norme imperative, anche se non manca chi opina diversamente sulla base del principio della tassatività delle cause di nullità del contratto di società ex art. 2332 c.c.

In ogni caso, il contratto di società è in sé un negozio di diritto privato e, quindi, soggiace sul piano sostanziale (per quanto attiene quindi alla validità, all’efficacia e alle sopravvenienze) alle regole di diritto comune.

Pertanto, le controversie in materia rientrano nella giurisdizione del G.O., anche quando si deducano gli effetti dell’illegittimità dell’atto prodromico a monte (la deliberazione della P.A.), riversatisi sul contratto.

La Cassazione (sent. 30167/2011 e 15121/2013; sulla stessa linea anche Cons. Stato, Ad. plen., 10/2011), in particolare, ha negato per tale fattispecie l’applicazione dell’art. 133, lett. e), c.p.a., in tema di affidamenti, servizi e forniture, con la conseguenza che è escluso che la materia dei contratti costituivi di società pubbliche rientri nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo. La Suprema Corte ha, infatti, osservato che:

  1. a) il contratto di società non configura un affidamento di servizi, opere e forniture e, trattandosi di norma eccezionale, questa non è passibile di applicazione analogica;
  2. b) la specificità di tale fattispecie è la creazione di un nuovo soggetto di diritto, il quale instaura rapporti con terzi e non può, quindi, essere cancellato con effetto caducante in assenza di una procedura di liquidazione;
  3. c) si applicano le norme societarie che riqualificano l’invalidazione dell’atto presupposto, volto a costituire una società, come la nullità per impossibilità dell’oggetto sociale.

La soluzione pretoria è stata recepita all’art. 7 del TUSP, con riferimento all’assenza o invalidità della delibera di costituzione: «nel caso in cui una società a partecipazione pubblica sia costituita senza l’atto deliberativo di una o più amministrazioni pubbliche partecipanti, o l’atto deliberativo di partecipazione di una o più amministrazioni sia dichiarato nullo o annullato, le partecipazioni sono liquidate secondo quanto disposto dall’art. 24, comma 5. Se la mancanza o invalidità dell’atto deliberativo riguarda una partecipazione essenziale ai fini del conseguimento dell’oggetto sociale, si applicano le disposizioni di cui all’art. 2332 del Codice civile». Gli effetti della nullità sono, quindi, quelli dell’art. 2332 c.c.: la nullità non pregiudica gli effetti degli atti compiuti dopo l’iscrizione nel registro delle imprese; i soci non sono liberati dall’obbligo del conferimento fino a quando non sono soddisfatti i creditori sociali; la nullità non può essere dichiarata quando la sua causa è stata eliminata e di tale eliminazione è stata data debita pubblicità nello stesso registro.

Tale nullità risulta essere una nullità speciale posta dal legislatore, della quale è problematico ipotizzare l’estensione a fattispecie atipiche.

5.5  I limiti alla costituzione e al mantenimento di partecipazioni

Il comma 1 dell’art. 4 del T.U. riprende il contenuto dell’art. 3, comma 27, della L. 244/2007, stabilendo che «le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società». Si tratta di un chiaro e stringente «vincolo di scopo pubblico».

Il successivo comma 2 prevede, inoltre, che nei limiti di cui al comma 1, le Amministrazioni pubbliche possono, direttamente o indirettamente, costituire società e acquisire o mantenere partecipazioni in società esclusivamente per lo svolgimento di talune attività: produzione di un servizio di interesse generale, progettazione e realizzazione di opere pubbliche in base ad accordi di programma o in regime di partenariato, auto-produzione di beni strumentali e servizi di committenza.

In tali ipotesi, l’atto deliberativo di costituzione di una nuova società a partecipazione pubblica deve ad ogni modo contenere un’analitica motivazione delle ragioni della scelta operata dall’amministrazione, la quale, infatti, in forza del successivo art. 5 del T.U., è tenuta a rappresentare:

–    la necessità della società per il perseguimento delle suindicate finalità istituzionali di cui all’art. 4 T.U.;

–    gli obiettivi gestionali cui deve tendere la società, sulla base di specifici parametri qualitativi e quantitativi;

–    le finalità che giustificano tale scelta sia sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria sia in considerazione della possibilità di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato;

–    la compatibilità della scelta con i principi di efficienza, di efficacia e di economicità dell’azione amministrativa.

Indubbiamente l’art. 4 del T.U. è una delle più rilevanti disposizioni della riforma in esame, giacché definisce i confini entro cui le società pubbliche possono operare.

Si osserva ulteriormente che il Decreto correttivo del 2017, all’art. 5, ha fatto salva la possibilità per le amministrazioni pubbliche di derogare all’art. 4, comma 2, lett. a) e, dunque, di acquisire o mantenere partecipazioni in società che producono servizi di interesse economico generale fuori dall’ambito territoriale della collettività di riferimento.

Nel caso in cui la P.A. istituisca una società pubblica al di fuori dei casi previsti si produrrà la nullità virtuale ex art. 1418 c.c. del contratto di società; d’altro canto, non manca chi ritiene che si dovrebbe prima annullare l’atto amministrativo che decide la costituzione della società per poi trarne le conseguenze sub specie di scioglimento o di impossibilità dell’oggetto sociale. In quest’ultimo caso quindi il G.A. annullerà l’atto amministrativo ed in seguito il G.O. si occuperà della vicenda liquidatoria o della nullità.

5.5.1  La dismissione delle partecipazioni sociali

Una volta esaurita la procedura amministrativa genetica, i successivi atti societari sono regolati dalle norme di diritto commerciale proprie del modello societario scelto, e dal contratto stipulato. Tutti gli atti, conseguenti la costituzione della società, con cui il socio pubblico disponeva della sua posizione di socio, inclusi anche gli atti di dismissione delle partecipazioni societarie, hanno quindi natura privatistica. La dismissione è, infatti, esercizio del potere che all’ente pubblico spetta in qualità di socio.

Secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale la giurisdizione compete al giudice ordinario perché non si applicano l’art. 119, comma 1, lett. c) e l’art. 133, lett. e), c.p.a. né si rientra nella generica pertinenza a servizi pubblici ex art. 133, lett. c).

In assenza di regole specifiche, le modalità di dismissione sono soggette soltanto ai principi generali di trasparenza e non discriminazione.

Significativa, in tal senso, è la posizione della giurisprudenza. In particolare, il TAR Sardegna ha declinato la propria giurisdizione perché «la procedura oggetto della controversia non rientra nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di cui all’art. 133, comma 1, lett. e), c.p.a., relativa alle «procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale […]», perché l’oggetto della gara (dismissione di quote azionarie pubbliche in una società di gestione aeroportuale) è differente da quello descritto dalla norma (lavori, servizi e forniture), tanto da essere destinatario di una disciplina ad hoc dettata dal regolamento di cui al decreto ministeriale 12 novembre 1997, n. 521, attuativo della norma primaria che prevede l’alienazione delle partecipazioni di cui al comma 1 è effettuata con modalità trasparenti e non discriminatorie, finalizzate anche alla diffusione dell’azionariato tra il pubblico dei risparmiatori e degli investitori istituzionali. Dette modalità di alienazione sono preventivamente individuate, per ciascuna società, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle attività produttive».

Si afferma, in altre parole, la giurisdizione del giudice ordinario per le controversie sulle dismissioni di partecipazioni societarie da parte del socio pubblico, in quanto atti di diritto comune (cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 12 dicembre 2018, n. 7030 la quale ribadisce che il T.U., nel caso di dismissione di partecipazioni, non impone una procedura di evidenza pubblica, ma il semplice rispetto di principi di non discriminazione e trasparenza, principi pienamente compatibili con i limiti all’esercizio di un potere privatistico nel mercato. In altre parole, sarebbe attratto nell’orbita negoziale non solo l’atto di vendita ma anche la scelta dell’acquirente (la quale non è, come detto, sottoposta alla procedura di evidenza pubblica).

Rimangono, tuttavia, irrisolti alcuni profili di debolezza di questa impostazione che, ad avviso di chi scrive, meritano un approfondimento in quanto l’art. 10 del T.U. prevede che vi sia un atto deliberativo a monte rispetto a quello negoziale di vendita.

Ciò induce a tre rilievi critici:

  1. a) l’argomento del contrarius actus, per cui gli atti che demoliscono i precedenti devono avere la medesima forma (vi sarebbe quindi una parificazione tra cessazione o acquisto della società e dismissione delle partecipazioni);
  2. b) la normativa, pur in assenza di regole puntuali, prevede procedure ad evidenza pubblica (la fase che precede la vendita rimane cioè una procedura pubblicistica e dunque dovrebbe essere conosciuta dal G.A.);
  3. c) sebbene l’art. 119, lett. c), c.p.a., sul rito speciale in tema di procedure di privatizzazione e dismissione, non sia decisivo in punto di giurisdizione, è tuttavia argomento di interpretazione.

Viene in rilievo, in definitiva, in caso di vizio relativo non solo alla decisione di vendere ma anche alla selezione dell’acquirente, un vizio dell’atto amministrativo a monte di quello negoziale a valle, similmente a quanto accade nella fase di creazione della società di cui si è detto al §5.4; soccorre anche, a favore della giurisdizione del G.A. in caso di vizio della determinazione amministrativa pregiudiziale, il principio generale per cui, al di là dell’applicazione di regole espresse che prevedano procedure di evidenza pubblica, l’amministrazione non può liberamente individuare il soggetto con il quale contrarre. Ciò è, peraltro, confermato proprio dalla previsione per cui la società pubblica è chiamata a rispettare principi di trasparenza e non discriminazione che non sono invece imposti al socio privato.

In questa prospettiva, va valutata con favore la recente indicazione giurisprudenziale (TAR Catania, sez. I, 4 aprile 2022, n. 964) che ha affermato la giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo sulla controversia avente ad oggetto la legittimità (o meno) delle deliberazioni del Consiglio comunale di messa in liquidazione di una società partecipata, adottate nell’ambito degli adempimenti di cui all’art. 20, D.Lgs. 175/2016, in quanto gli atti in questione sono espressione del potere autoritativo delle amministrazioni pubbliche, teso, tra l’altro, all’esigenza di razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica (art. 1, D.Lgs. 175/2016); essi involgono, quindi, posizioni di interesse legittimo finalizzato al corretto esercizio del potere da parte della società, con cui si fa per l’appunto valere un interesse legittimo come aspirazione al conseguimento o al mantenimento di un bene o di una utilità in conseguenza dell’azione amministrativa (in tal caso al mantenimento in vita della società) a fronte dell’esercizio del detto potere autoritativo.

Gli atti in questione, necessitanti di adeguata motivazione, sono espressione del potere autoritativo delle amministrazioni pubbliche, teso, tra l’altro, all’esigenza di razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica (art. 1, D.Lgs. 175/2016); essi involgono, quindi, posizioni di interesse legittimo come aspirazione al conseguimento o al mantenimento di un bene o di una utilità in conseguenza dell’azione amministrativa (in tal caso al mantenimento in vita della società). Si è, nell’occasione, chiarito che, la soluzione che trova conferma nella giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione, secondo cui sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto l’attività unilaterale e prodromica, di natura pubblicistica, con la quale un ente pubblico delibera di incidere sulle vicende societarie (di costituzione, modificazione ed estinzione della società), mentre sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto gli atti societari che si pongono a valle della scelta di fondo di utilizzo del modello societario, le quali restano interamente soggette alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito (Cons. Stato, sez. V, 22 giugno 2020, n. 3969 e id. 23 gennaio 2019, n. 578; Cass., Sez. Un., 20 settembre 2013, n. 21588; TAR Catania, sez. I, 17 maggio 2023, n. 1631).

5.6  Nomina e revoca degli amministratori

La creazione di una società pubblica dà vita a un nuovo soggetto di diritto privato, all’interno del quale gli atti compiuti dal socio e incidenti sulla vita della società sono manifestazione di volontà privatistica iure socii, e non del potere autoritativo della P.A. che vi partecipa.

L’origine “pubblica” della società giustifica, tuttavia, il trattamento di favore che l’art. 2449 c.c. riserva al socio pubblico: «se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione al capitale sociale.

Gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del primo comma possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati».

La vexata quaestio della natura giuridica degli atti di nomina e revoca da parte del socio pubblico trova una prima risposta nel disposto dell’art. 2476 c.c. e, per le società per azioni, anche art. 2409 c.c., ai sensi dei quali la revoca degli amministratori si può esperire con azione al giudice.

Con sent. 21299/2017, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito un punto cruciale della questione: l’atto di revoca dell’amministratore lede il suo diritto a rimanere in carica, generando conseguenze sul piano della vita della società e qualificandosi quindi come atto di natura privatistica. Spetta dunque al G.O. conoscere sia degli atti di revoca che degli atti di nomina. Infatti, argomenta la Suprema Corte, è determinante l’origine del potere di nomina e revoca, che non discende direttamente da una legge (come ogni potere autoritativo), ma dallo statuto societario.

La regola si applica anche per la tutela risarcitoria senza giusta causa ex art. 2383 c.c. e si estende anche alle società in house, in quanto, ex art. 3, comma 13, D.L. 95/2012, per quanto non diversamente disposto, le società a partecipazione pubblica sono disciplinate dalle norme sulle società contenute nel Codice civile (v. Cass., Sez. Un., 18 giugno 2019, n. 16335).

La soluzione è stata confermata dal Testo Unico n. 175/2016, che all’art. 9, comma 7, attribuisce al socio pubblico la titolarità del potere di nomina e revoca, se prevista dallo statuto, di uno o più componenti degli organi. La mancanza o invalidità dell’atto deliberativo interno è causa di invalidità della nomina e si riflette anche nei confronti della società (anche società quotate). Anche in questo caso, il potere di nomina e revoca trae le sue origini dallo statuto e solo indirettamente dalla legge, a ribadirne la natura privatistica.

Si pone, in questo campo, anche il problema della natura e della necessità di impugnazione degli atti deliberativi interni davanti al GA ex art. 9, comma 8. T.U. Secondo la tesi più convincente l’aggettivo “interni” induce a ritenere che si tratta di atti preparatori di carattere endoprocedimentale, non necessitanti di impugnazione autonoma e soggetti a cognizione incidentale in sede di contestazione dell’atto a valle innanzi al giudice civile.

Per le stesse ragioni sono sottoposte al diritto privato anche le controversie tra soci e quelle tra società e soci (si pensi agli atti concretanti violazioni dei diritti dei soci o violazione dei patti parasociali).

5.7  Principi fondamentali sull’organizzazione e sulla gestione delle società a controllo pubblico. Il “principio di separazione contabile”

Chiaramente votato alla razionalizzazione della governance delle società a controllo pubblico è l’art. 6 del T.U.

Si impone quindi, alle società a controllo pubblico che svolgano attività economiche protette da diritti speciali o esclusivi insieme con altre in regime di economia di mercato, il rispetto del principio di separazione contabile, ritenuto la massima espressione di quella che indubbiamente è una delle regole fondamentali del diritto comunitario, ovvero la par condicio tra operatori economici.

Pretendendo la separazione contabile e non strutturale, il Legislatore ha, con tutta evidenza, voluto evitare, in coerenza con l’impostazione complessiva di tutto il T.U., la creazione di ulteriori enti societari.

La disciplina in ordine alla gestione delle partecipazioni è invece recata dall’art. 9 del D.Lgs. 175/2016, il quale, anche al fine di individuare in modo chiaro e coerente le responsabilità gestorie, individua gli organi destinati ad esercitare i diritti e le prerogative societarie.

Inoltre, il comma 6 chiarisce che eventuali violazioni delle suddette disposizioni e il contrasto con impegni assunti mediante patti parasociali non determinano l’invalidità delle deliberazioni degli organi della società partecipata, ferma restando la possibilità che l’esercizio del voto o la deliberazione siano invalidate in applicazione di norme generali di diritto privato.

5.8  Cade il tabù dell’intangibilità delle partecipate pubbliche. Le società pubbliche possono fallire

Il T.U. pone anche fine al dibattito sull’ammissibilità delle società partecipate alle procedure concorsuali e fallimentari, stabilendo, all’art. 14, che le società pubbliche, se amministrate male, devono inevitabilmente soggiacere alle norme in materia di fallimento, concordato preventivo ed amministrazione delle grandi imprese in crisi (vedi, per lo stato dell’arte prima del codice, il precedente §4.2.3).

Qualora nell’ambito di valutazione del rischio di crisi aziendale di cui all’art. 6, comma 2, dovessero emergere «uno o più indicatori di crisi», l’organo amministrativo dovrebbe predisporre «senza indugio […] un idoneo programma di risanamento», sì da evitarne l’aggravamento, correggerne gli effetti ed eliminarne le cause.

La mancata adozione da parte dell’organo competente dei provvedimenti di cui innanzi costituisce grave irregolarità ai sensi dell’art. 2409 del Codice civile, a nulla rilevando l’eventuale approntamento di un mero ripiano delle perdite, a meno che esso non sia accompagnato da un piano di ristrutturazione aziendale, dal quale risulti che sussistano concrete possibilità di recupero dell’equilibrio economico delle attività svolte dalle società.

Indubbiamente, l’art. 14 del T.U. ha il pregio di intervenire su una questione particolarmente intricata e controversa, foriera di continue oscillazioni giurisprudenziali e di orientamenti dottrinali spesso contrastanti: la norma in questione, invero, mira all’evidenza a sbarazzarsi delle società mal gestite, perennemente “in rosso”, che tuttora continuano a drenare risorse agli enti soci.

*Contributo estratto dal Manuale Ragionato di Diritto Amministrativo*