In relazione al reato di diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ai fini dell’applicazione della pena detentiva, il giudice dovrà valutare se la condotta rientra nella nozione di eccezionale gravità del fatto che, in base a quanto disposto dalla sentenza della Corte costituzionale 150/2021, ricorre nel caso di diffusione di discorsi d’odio e di campagne di disinformazione. – Cass. V, 26 luglio 2023, n. 32603.
La decisione in commento analizza preliminarmente il rapporto tra diritto di cronaca e reato di diffamazione per poi soffermarsi sulla questione relativa al trattamento sanzionatorio previsto per il reato di cui all’art. 595 c.p., commesso a mezzo stampa.
La Suprema Corte, in primis, sottolinea che il diritto di cronaca, che può comportare qualche sacrificio dell’accuratezza della verifica della verità del fatto narrato e della bontà della fonte per esigenze di velocità, presuppone la immediatezza della notizia e la tempestività dell’informazione, e, pertanto, non ricorre quando si offre il resoconto di fatti distanti nel tempo, in relazione ai quali è legittimo pretendere un’ attenta verifica di tutte le fonti disponibili.
Tale principio di diritto comporta che, laddove il giornalista dia conto di vicende giudiziarie, su di esso incombe l’obbligo di accertare e rappresentare compiutamente lo sviluppo degli esiti processuali delle stesse.
La Quinta Sezione, in secondo luogo, esprimendosi in merito alla tematica del trattamento sanzionatorio previsto per il reato di diffamazione a mezzo stampa, ribadisce quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella Sent. 150/2021.
In particolare, ripercorrendo quanto statuito dalla Consulta, la Cassazione evidenzia che l’applicazione della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa, o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, è subordinata alla verifica della “eccezionale gravità” della condotta che, secondo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, si individua nella diffusione di messaggi diffamatori connotati da discorsi d’odio e di incitazione alla violenza ovvero in campagne di disinformazione gravemente lesive della reputazione della vittima, compiute nella consapevolezza della dimostrabile ed oggettiva falsità dei fatti ad essa addebitati.
Nella citata sentenza, la Corte Costituzionale, da un lato, aveva affermato l’illegittimità della pena cumulativa, detentiva e pecuniaria, prevista per reprimere i fatti di diffamazione, chiarendo entro quali limiti è invece legittima la previsione della pena alternativa e, dall’altro, – tenendo presente il quadro del confronto tra il diritto alla libertà di espressione dei giornalisti nell’esercizio del diritto di cronaca e di critica e la reputazione del singolo, diritto inviolabile suscettibile di essere gravemente compromesso da aggressioni illegittime compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità che impattino sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica dei soggetto aggredito – non ha escluso in assoluto l’applicazione della sanzione detentiva, ma a condizione che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica.
Tali cautele si identificano nell’enucleazione di due categorie di casi nei quali le offese recate alla vittima possano qualificarsi come di “eccezionale gravità”, sicché la tutela del soggetto passivo della diffamazione acquisti una preminenza tale da rendere costituzionalmente e convenzionalmente compatibile la condanna al carcere per il reato di cui all’art. 595 c.p. La prima categoria, ispirata alla giurisprudenza della Corte EDU, identifica come meritevoli della pena detentiva i discorsi d’odio e quelli che istighino alla violenza, quando veicolanti o veicolati da messaggi diffamatori; la seconda categoria è ricondotta alle ipotesi che attengono alle «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi», le quali, qualora l’attività di informazione conduca a trasmettere informazioni di tal fatta, finiscono col rappresentare esse stesse un pericolo per la democrazia.
*Contributo a cura di Gaya Carbone, Beatrice Lo Proto e Antonino Ripepi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 66/Settembre 2023 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica