Dike giuridica, Istituti e sentenze commentate

Le scusanti e l’errore*

Concorso straordinario in magistratura

Le scusanti e l’errore: Inquadramento generale

Come per l’antigiuridicità del reato, l’ordinamento prevede una serie di circostanze idonee ad escludere la colpevolezza, complessivamente intesa o relativamente ai suoi singoli elementi.

Con particolare riferimento alle scusanti, va evidenziato che, attraverso tale istituto, l’ordinamento esclude la possibilità di muovere un rimprovero al reo in presenza di circostanze che rendono inesigibile una condotta diversa da quella tenuta.

Proprio in ragione del descritto fondamento delle cause di esclusione della colpevolezza, parte della dottrina, che ha avuto altresì seguito in alcune pronunce giurisprudenziali, ha ritenuto di poter desumerne la vigenza nel nostro ordinamento di un generale principio di necessaria esigibilità di una condotta diversa da quella tenuta dal reo, tale per cui sarebbe possibile escludere la colpevolezza del reato anche in assenza di una espressa previsione di una scusante.

Secondo questa impostazione, nota anche come “teoria della inesigibilità”, la inesigibilità della condotta lecita costituirebbe infatti un limite intrinseco della responsabilità penale, come tale idoneo a trovare applicazione generale.

Si è tuttavia obiettato che il principio in questione manca di un espresso fondamento normativo, dal momento che il legislatore, ove ha ritenuto di assegnare rilevanza scusante a determinate circostanze, lo ha fatto espressamente e in maniera tassativa.

Inoltre è stata evidenziata la mancanza di un parametro affidabile in base al quale verificare se la condotta fosse o meno esigibile, non potendo farsi riferimento alle caratteristiche personali del reo, che priverebbero il giudizio penale di obiettività e comprometterebbero la certezza dell’applicazione delle norme penali, in violazione del principio di legalità e di tassatività.

Infine, si è sottolineato che le fattispecie cui la teoria dell’inesigibilità fa riferimento per affermare l’esistenza del relativo principio generale sono riconducibili a cause di esclusione della responsabilità penale già disciplinate espressamente dall’ordinamento e non richiedono quindi di invocare alcun principio generale.

Si pensi, in particolare, al caso di conflitto di doveri, in cui il soggetto agente sia tenuto a venir meno ad un obbligo penalmente rilevante per adempierne un altro (l’esempio cui comunemente si fa riferimento è quello del medico che debba recarsi contemporaneamente presso due pazienti in fin di vita): in questo caso, tuttavia, l’adempimento di uno dei doveri costituisce, a monte, una causa di giustificazione, che rende lecito il mancato adempimento del secondo dovere, escludendo la responsabilità penale.

Ulteriore ipotesi in cui troverebbe applicazione il principio di inesigibilità ricorre in presenza di conflitti motivazionali, ad esempio di carattere religioso, rispetto ai quali, tuttavia, si è sostenuto che possa trovare applicazione la scriminante dell’esercizio di un diritto (quale il diritto di libertà religiosa, di cui all’art. 19 Cost.), per far venir meno a monte l’antigiuridicità del fatto, purché sussistano i relativi presupposti.

Nonostante le descritte critiche al principio di inesigibilità, la Corte di Cassazione ne ha fatto applicazione in alcune risalenti pronunce, in cui è stata esclusa la responsabilità dell’imputato per le falsità commesse in bilancio, volte ad occultare ulteriori reati commessi in precedenza; così, nelle sent. 2906/1987 e 8767/1989, la Corte di Cassazione ha ritenuto inesigibile, da parte del reo, il rispetto delle norme in materia di bilancio, poiché gli imputati avevano commesso il fatto tipico di falso per evitare di rendere note attività delittuose commesse in precedenza.

Tale orientamento non è stato tuttavia condiviso dalla giurisprudenza successiva, che ha sostenuto invece non meritevole di tutela la condizione in cui fosse venuto a trovarsi chi avesse commesso reati, evidenziando il paradosso insito nell’escludere la responsabilità penale proprio di chi abbia commesso il reato di falso in forma aggravata, ricorrendo l’aggravante ex art. 61, comma 1, n. 2, c.p., che prevede un aumento di pena quando un reato sia commesso per occultarne un altro (così la sent. 1245/1998).

Un’espressa negazione della possibilità di riconoscere il principio, definito “ultralegale”, di inesigibilità è stata inoltre opposta dalla Corte nella sent. 6929/2000, evidenziando l’assenza di alcun fondamento normativo del principio e il carattere tassativo delle cause di esclusione della colpevolezza.

Nel caso di specie si trattava del delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, rispetto al quale era stata invocata la scusante atipica legata all’inesigibilità di una diversa condotta, per timore da parte del concorrente di ripercussioni in caso di rifiuto di collaborare, esclusa tuttavia dalla Corte, specie a fronte di vantaggi patrimoniali (e non) derivanti dalla vicinanza all’associazione.

Accade infine che il principio di inesigibilità sia invocato in presenza di fatti che tuttavia sono privi, a monte, di tipicità, come nel caso affrontato nel 2011 da Tribunale di Milano, che ha definito inesigibile l’omesso versamento dell’IVA da parte dell’amministratore di una società, da poco entrato in carica, per via del mancato accantonamento delle somme necessarie da parte dei suoi predecessori; è infatti possibile ravvisare nel caso di specie la mancanza dei c.d. “poteri impeditivi” (nell’accezione, in questo caso, di poteri di agire, trattandosi di un reato di mera condotta) che, come si è avuto modo di osservare in relazione ai delitti omissivi, sono necessari perché possa ritenersi integrata la tipicità del reato, senza porre un problema di colpevolezza del soggetto che pone in essere la condotta omissiva.

Alla luce delle pronunce esaminate è stata dunque sostenuta l’estraneità del principio di inesigibilità nel nostro ordinamento e ribadito il carattere tassativo delle cause di esclusione della colpevolezza.

Deve tuttavia segnalarsi, sul punto, la sent. 49578/2016, con cui la Corte di Cassazione è pervenuta a soluzione opposta, in merito alla contravvenzione di cui all’art. 76, comma 4, del D.Lgs. 159/2011, c.d. Codice Antimafia, di omesso versamento della cauzione disposta a titolo di misura di prevenzione.

I giudici di legittimità, nel pronunciarsi in merito ad un’ipotesi di insolvenza da parte dell’imputato, privo dei mezzi economici necessari, ha richiamato la sent. 218/1998, della Corte Costituzionale, relativa al previgente art. 3bis della L. 575/1965 (confluito in maniera del tutto corrispondente nel vigente art. 76 cit.), con cui il giudice delle leggi ha affermato che “la materiale impossibilità di provvedere al versamento della cauzione, causata dalla mancanza di disponibilità economiche, evidentemente non preordinata o colposamente determinata, comporta l’esenzione da responsabilità per assenza di “colpevolezza” (intesa quale rimproverabilità concreta dell’agente)”.

La sentenza prosegue richiamando la successiva giurisprudenza della Corte di Cassazione che, sulla scia di tale pronuncia ha riconosciuto “il rilievo della “impossidenza” a fini di esclusione della penale responsabilità, sempre che l’imputato assolva in concreto un “onere di allegazione” di circostanze idonee a rappresentare la condizione de qua, precisando tuttavia che il giudice è chiamato ad accertare la reale condizione economica del soggetto tratto a giudizio nel momento in cui si è verificata l’inottemperanza.

Pur potendo ricondursi, anche in questo caso, l’impossibilità materiale di adempiere all’assenza di “poteri impeditivi” (nell’accezione sopra precisata), la Corte Costituzionale, prima, e la Corte di Cassazione, poi, hanno espressamente riconosciuto un’efficacia di esclusione della colpevolezza alla indigenza dell’imputato, collocando la questione sul piano della colpevolezza, alimentando così il dibattito circa la tipicità delle scusanti.

L’errore

Tra le cause che escludono la colpevolezza del soggetto agente il legislatore dedica un’organica disciplina alle ipotesi di errore, nell’accezione di errore “motivo” o volitivo, in contrapposizione all’errore “inabilità” o esecutivo, con riferimento alle ipotesi di aberratio.

L’errore motivo, infatti, non attiene all’esecuzione del reato ma al momento rappresentativo che lo precede, rispetto al quale determina una inesatta rappresentazione della realtà da parte del soggetto agente, che ne vizia la volontà.

Occorre distinguere, tra gli errori-motivo, errori di fatto (c.d. error facti) ed errori di diritto (c.d. error iuris), a seconda che l’errata percezione da parte del reo attenga alla realtà materiale o al significato di una norma giuridica.

Secondo l’impostazione tradizionale, l’errore sul fatto può inoltre attenere al momento percettivo, relativo cioè all’acquisizione dei dati rilevanti da parte del soggetto agente, così come al momento valutativo, allorché i dati, pur correttamente acquisiti, siano erroneamente valutati.

In entrambi i casi deriva una percezione distorta degli elementi costitutivi del reato o dei suoi presupposti, tale da compromettere la colpevolezza di chi abbia posto in essere la condotta.

Deve tuttavia darsi atto di una recente pronuncia della Corte di Cassazione 1780/2022, che ha invece escluso la possibilità di ravvisare un errore sul fatto a fronte della corretta percezione della situazione concreta e di un successivo errore valutativo da parte del soggetto agente: è il caso di due genitori che lasciano i propri figli a dormire in auto, all’esterno di un locale, con i finestrini abbassati, chiamati a rispondere di abbandono di minori e ritenuti responsabili in quanto la loro erronea valutazione in ordine al pericolo cui i minori erano stati esposti non è stata considerata rilevante ai fini dell’art. 47 c.p.

All’errore deve inoltre essere equiparata l’ignoranza, in termini di mancata conoscenza, mentre non può ritenersi in errore chi agisce in uno stato di dubbio.

L’art. 47 c.p. prende in considerazione l’errore di fatto al comma primo, prevedendo che “L’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente”.

La seconda parte del comma primo dispone tuttavia che “Nondimeno, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.

Il “fatto”, cui la disposizione citata si riferisce, deve intendersi nell’accezione di fatto tipico, con la conseguenza che assumerà rilevanza l’errore relativo a qualunque degli elementi costitutivi del reato.

Qualora infatti, nei reati dolosi, il soggetto agente si sia rappresentato e abbia di conseguenza voluto realizzare un fatto diverso da quello effettivamente realizzato, non potrà ritenersi che quest’ultimo sia stato effettivamente previsto e voluto e verrà quindi a mancare il dolo (per carenza o erronea rappresentazione dell’evento dannoso o pericoloso, che determina una volontà viziata in capo al soggetto agente).

Parte della dottrina sostiene che l’art. 47 c.p. debba trovare altresì applicazione nei reati colposi, allorché l’erronea percezione della realtà da parte del reo abbia determinato la violazione cautelare e quindi la verificazione dell’evento.

Si pensi al caso in cui il soggetto agente, a causa di un errore sulla pericolosità di una sostanza chimica, abbia cagionato lesioni a terzi per non aver adottato le opportune cautele; in questo caso il giudizio di prevedibilità ed evitabilità è falsato dall’errore, con conseguente necessità di assegnare rilevanza all’errore ai fini dell’esclusione della responsabilità per carenza dell’elemento soggettivo.

Peraltro si osserva che proprio la punibilità a titolo di colpa dei fatti commessi con errore non scusabile, confermerebbe la compatibilità tra i reati colposi e la norma in esame.

Come evidenziato, infatti, l’art. 47, comma 1, c.p. precisa che quando l’errore sia dovuto a colpa del soggetto agente, che avrebbe quindi potuto prevederlo ed evitarlo, il fatto continuerà ad assumere rilevanza penale sotto forma di reato colposo, purché il legislatore ne abbia prevista la punibilità a titolo di colpa.

Il comma secondo dell’art. 47 c.p. prevede inoltre che “L’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso, con riferimento ai casi in cui, pur non corrispondendo alla situazione rappresentata dal reo, il fatto realizzato integri gli estremi di un diverso reato (come nel caso in cui il soggetto agente non sia stato per errore consapevole di agire come pubblico ufficiale e tuttavia abbia posto in essere gli estremi di un’appropriazione indebita, che a differenza del delitto di peculato – su cui ricade l’errore in merito alla necessaria qualifica soggettiva – potrà essere punita.

L’errore di diritto

L’errore di diritto è invece disciplinato dal comma terzo dell’art. 47 c.p., ai sensi del quale “L’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”.

Nonostante il mancato riferimento all’ipotesi in cui l’errore sia derivato da colpa, presente invece nel comma primo, parte della dottrina ha sostenuto che, attraverso un’interpretazione sistematica dei due commi dell’art. 47 c.p., possa estendersi la responsabilità colposa del soggetto agente anche nei casi in cui l’errore di diritto fosse evitabile da parte sua; questa soluzione non ha tuttavia convinto una parte della dottrina, che ha ravvisato nell’estensione della responsabilità per colpa ai casi di errore di diritto, una forma di analogia in malam partem, vietata ai sensi dell’art. 14 Preleggi.

Il riferimento alla natura non penale della legge su cui ricade l’errore consente di coordinare la disposizione in esame con quanto previsto dall’art. 5 c.p. in relazione all’ignoranza della legge penale.

Quest’ultima disposizione dispone infatti che “Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale”, cui va equiparato l’errore sull’interpretazione delle norme penali. Qualora dunque l’errore di diritto interessi il precetto penale non potrà assumere rilevanza nell’escludere la colpevolezza del reo, ad eccezione dei casi di errore inevitabile, e quindi scusabile.

Tanto premesso, occorre dare atto delle diverse interpretazioni del comma terzo dell’art. 47 c.p., operate da parte della dottrina, alcune delle quali finiscono con elidere la portata applicativa della norma, riconducendo ogni errore di diritto alle ipotesi disciplinate dal citato art. 5 c.p.

Una prima impostazione, che segue la c.d. “teoria degli effetti psicologici ultimi”, sostiene che l’errore su norma diversa da quella penale riguardi l’interpretazione delle norme giuridiche che integrano la fattispecie penale, attraverso gli elementi normativi; secondo tale orientamento, infatti, sia l’errore che ricada direttamente sulla componente materiale del fatto tipico, sia l’errore su una norma che disciplina uno degli elementi costitutivi del fatto tipico, conducono alle medesime conseguenze, determinandone una percezione distorta da parte del reo, che ne compromette la colpevolezza.

In entrambi i casi infatti il soggetto agente si rappresenta un fatto diverso da quello effettivamente commesso: si pensi al caso in cui il soggetto agente, mal interpretando le norme sulla proprietà, ritenga che il bene di cui si sia impossessato costituisca una res nullius e non appartenga pertanto ad altri, pur essendo nella loro disponibilità; in questo caso non potrebbe dunque ravvisarsi il dolo in relazione al reato di furto, venendo a mancare la rappresentazione dell’altruità della cosa e la relativa volontà di commettere il reato.

Di diverso avviso sono invece i sostenitori della c.d. “teoria della incorporazione”, che ha avuto seguito nella giurisprudenza di merito e di legittimità, secondo cui le norme extra-penali richiamate espressamente o implicitamente (mediante gli elementi normativi del fatto tipico), dalla norma incriminatrice, parteciperebbero alla natura penale di quest’ultima, con conseguente applicazione dell’art. 5 c.p. in caso di errore sul relativo significato.

Secondo tale impostazione dunque, l’art. 47, comma terzo, c.p. troverebbe applicazione solo con riferimento alle norme extra-penali che non integrano la fattispecie penale ma si limitano a dettare le disciplina degli istituti da essa richiamati.

Esemplificando, nel delitto di furto assumerebbero natura penale, in quanto richiamate per mezzo dell’elemento normativo dell’“altruità della cosa”, le disposizioni civilistiche che regolano il diritto di proprietà e consentono di stabilire chi sia il proprietario del bene sottratto; non invece le norme che si limitino a dettare la disciplina della proprietà, come le norme in materia di usucapione, o che disciplinano gli atti emulativi, e simili.

A fronte di questa ricostruzione del contenuto precettivo dell’art. 47, comma 3, c.p. e dei rapporti con il disposto dell’art. 5 c.p., si è tuttavia rilevato che, così opinando, si opererebbe una interpretatio abrogans (cioè un’interpretazione abrogatrice) della prima disposizione, privandola di contenuto precettivo; si è infatti osservato che è opinabile la distinzione tra norme autenticamente integratrici della fattispecie penale e norme non integratrici, con conseguente estensione della irrilevanza dell’errore oltre i casi effettivamente regolati dall’art. 5 c.p., privando nel contempo di significato il disposto dell’art. 47, comma terzo, c.p., che si rivolge invece proprio alle norme extra-penali che integrano dall’esterno la fattispecie penale.

Sulla scorta di tali considerazioni, una terza tesi ha invece sostenuto che la norma del terzo comma dell’art. 47 c.p. costituisca una deroga all’art. 5 c.p., muovendo tuttavia dal medesimo presupposto della teoria dell’incorporazione, secondo cui le norme integratrici della fattispecie penale assumerebbero esse stesse natura penale. Questa ricostruzione non spiega tuttavia perché il legislatore abbia collocato in disposizioni diverse la regola dell’art. 5 c.p. e la sua eccezione, nel terzo comma dell’art. 47 c.p.

È stato quindi sostenuto, in dottrina, che l’interpretazione preferibile dell’art. 47, comma terzo, c.p., che consente di assegnare alla disposizione il proprio autonomo ambito di operatività, è quella operata in accordo con la tesi degli effetti psicologici ultimi che, valorizzando le conseguenze dell’errore di diritto sulla percezione del fatto tipico, consente altresì di spiegare la collocazione della norma nella medesima disposizione che disciplina l’errore sul fatto, nonché l’espresso riferimento in essa contenuta alla natura “diversa dalla legge penale” delle norme su cui ricade l’errore.

Tanto chiarito in merito all’interpretazione dell’art. 47, comma terzo, c.p., occorre prendere in esame il disposto dell’art. 15 del D.Lgs. 74/2000, in materia di reati tributari, in cui il legislatore vi fa espresso riferimento.

La disposizione citata, rubricata “Violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie”, prevede che “Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 47, terzo comma, del codice penale, non danno luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione”.

Come emerge dal tenore dell’art. 15 cit., la disposizione opera in relazione ai casi di errore diversi da quelli disciplinati dall’art. 47, comma 3, c.p., e dunque con riferimento agli errori di diritto che non ricadono sul fatto, bensì sul precetto tributario.

L’errore deve essere dovuto a condizioni obiettive di incertezza sulla portata della norma tributaria o sul relativo ambito di applicazione, che evocano i criteri oggettivi cui la Corte Costituzionale ha fatto riferimento nella sent. 364/1988, nel riconoscere carattere inevitabile, e quindi scusabile, all’errore sulla legge penale.

In questo senso la disposizione in esame consente di derogare al disposto dell’art. 5 c.p., ammettendo la rilevanza dell’errore di diritto in materia tributaria, quando risulti derivato dalle condizioni di obiettiva oscurità della legge.

L’errore determinato dall’altrui inganno

La disciplina dell’errore è completata dal disposto dell’art. 48 c.p., ai sensi del quale “Le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno”; la norma prosegue precisando che “in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo”.

La disposizione in esame presenta struttura analoga rispetto alle ipotesi di reato commesso sotto l’altrui minaccia, di cui all’art. 54, ultimo comma c.p., e della costrizione fisica a commettere il reato, disciplinata dall’art. 46 c.p., qualificate da parte della dottrina come casi di “reità mediata”; si tratta di un istituto di origine tedesca, in cui il soggetto agente è manipolato, in maniera più o meno intensa, da un terzo al fine di commettere un reato, del quale tuttavia non è chiamato a rispondere, in quanto agisce come “strumento” del terzo.

Tuttavia, tale categoria è ritenuta estranea al nostro ordinamento dalla dottrina maggioritaria, proprio in ragione dell’espressa disciplina dei casi che, nell’ordinamento tedesco, sono regolati attraverso il ricorso alla figura della reità mediata.

L’art. 48 c.p., come osservato, richiama integralmente l’art. 47 c.p., con conseguente possibilità di escludere la responsabilità del soggetto agente tanto nei casi di errore indotto sul fatto, quanto nei casi di errore indotto su norma extra-penale, che ricada sul fatto (si pensi al caso in cui l’imprenditore commetta un reato societario perché indotto in errore dal proprio legale o commercialista). Deve tuttavia ritenersi che, se l’errore fosse evitabile dal soggetto agente, che ha quindi agito per colpa, questi dovrà rispondere a titolo colposo del reato, qualora tale possibilità sia prevista dal legislatore.

Secondo la dottrina maggioritaria infatti l’errore cui fa riferimento l’art. 48 c.p. deve risultare idoneo a sorprendere l’altrui buona fede, dovendosi altrimenti ritenere sia il terzo che il soggetto agente responsabili del fatto commesso. Èinfine dibattuta la questione della necessitàche il terzo ingannatore abbia agito con dolo: a fronte di un orientamento minoritario che ha sostenuto la rilevanza dell’inganno anche quando dovuto a colpa del terzo, la dottrina maggioritaria ha ritenuto che il fondamento dellestensione della responsabilitàper il fatto commesso al terzo debba rinvenirsi proprio nel carattere intenzionale dellinganno.

*Articolo a cura di Angelo Salerno – Estratto da Dike giuridica editrice – Rivista “Obiettivo Magistrato” – Marzo 2023

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