Dike giuridica, Istituti e sentenze commentate

Il principio di proporzionalità e le sue applicazioni*

Obiettivo Magistrato - N. 63 Aprile 2023
  1. Il principio di proporzionalità

Il principio di proporzionalità della pena rispetto alla condotta sanzionata è un corollario del principio di offensività e, negli ultimi anni, è stato oggetto di numerose e rilevanti pronunce della Corte Costituzionale.

In forza del principio di proporzionalità l’interprete è tenuto a valutare l’intensità del pericolo o della lesione cagionata al bene giuridico tutelato, in relazione alle modalità della condotta punita, onde verificare se le conseguenze sanzionatorie che l’ordinamento ne fa discendere risultino proporzionate.

Si tratta di un principio che trova applicazione generale nell’ordinamento, interessando altresì il diritto civile e il diritto amministrativo, come conferma la giurisprudenza di legittimità che ha valorizzato il principio di buona fede quale canone per valutare il comportamento delle parti, prima e dopo la conclusione del contratto (ma anche in assenza di un rapporto contrattuale, come nel caso del contatto sociale qualificato), nonché come limite all’esercizio di un diritto, individuandolo nel ragionevole e proporzionato sacrificio degli interessi dei soggetti coinvolti; nel contempo, il diritto amministrativo eleva la proporzione a criterio di valutazione della legittimità del provvedimento, attraverso le lenti dell’eccesso di potere, chiamando il giudice amministrativo a valutare se nell’esercizio del potere risulti proporzionato il rapporto tra l’interesse generale perseguito, ivi compresi i risultati ottenuti, e le posizioni giuridico soggettive dei privati su cui il provvedimento produce i propri effetti.

Il principio in esame costituisce fondamentale criterio interpretativo in relazione ad un settore a cavallo tra il diritto penale e le altre branche dell’ordinamento, con particolare riferimento alle cause di giustificazione: la scriminante dell’esercizio di un diritto, infatti, richiede di operare un bilanciamento tra le posizioni giuridico-soggettive contrapposte (diritto esercitato e bene giuridico tutelato), verificando la proporzione tra il pregiudizio arrecato e l’interesse soddisfatto; nel contempo è espressamente o implicitamente richiesto di verificare il requisito della proporzione nel caso, rispettivamente, della legittima difesa e dello stato di necessità.

Nel contempo, è ravvisabile nella giurisprudenza sovranazionale in materia di ne bis in idem un frequente riferimento alla proporzione tra il fatto e le conseguenze giuridiche che ne derivano, ivi compreso il trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato, valutato anche in relazione ai procedimenti attivati nei confronti del responsabile.

Deve invece individuarsi in questa sede il fondamento normativo del principio in esame, che ha trovato un chiaro e autorevole riconoscimento nella recente sent. 236/2016 della Corte Costituzionale.

Con la citata sentenza, la Corte ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost. “dell’art. 567, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede la pena edittale della reclusione da un minimo di cinque a un massimo di quindici anni, anziché la pena edittale della reclusione da un minimo di tre a un massimo di dieci anni”.

In tale occasione, il giudice delle leggi ha infatti affermato che “È costante, nella giurisprudenza costituzionale, la considerazione secondo cui l’art. 3 Cost. esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali”.

La Corte ha altresì richiamato l’art. 27, comma 3, Cost., evidenziando che “il principio di proporzionalità esige un’articolazione legale del sistema sanzionatorio che renda possibile l’adeguamento della pena alle effettive responsabilità personali, svolgendo una funzione di giustizia, e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statale, in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale (sent. 50/1980)”.

Si precisa inoltre che “Laddove la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa il legislatore abbia fatto corrispondere conseguenze punitive di entità spropositata, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del processo rieducativo, processo al quale il reo tenderà a non prestare adesione, già solo per la percezione di subire una condanna profondamente ingiusta (sent. 251 e 68/2012), del tutto svincolata dalla gravità della propria condotta e dal disvalore da essa espressa”.

Il fondamento del principio di proporzionalità viene infine rinvenuto dalla Corte nell’art. 49, n. 3), della Carta di Nizza, in forza del quale “le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato.

Al pari di altri fondamentali principi che regolano la materia penale (si pensi a titolo esemplificativo al principio di tassatività, al principio di retroattività favorevole) e del principio stesso di offensività, di cui quello di proporzione costituisce un corollario, sono molteplici le fonti costituzionali e sovranazionali in cui il principio in esame trova fondamento.

Qualora infatti il legislatore prevedesse una risposta sanzionatoria sproporzionata, determinerebbe dunque una plurima violazione dei precetti costituzionali, di ragionevolezza, del finalismo rieducativo della pena, nonché sovranazionali, nei termini sopra precisati.

2. Le applicazioni del principio di proporzionalità

Nonostante la rilevanza che oggi pacificamente si riconosce al principio di proporzionalità, ricorrente nella giurisprudenza di legittimità e costituzionale, oltre che di merito, la sua affermazione – al pari del principio di offensività – è stata graduale e deve i più importanti approdi all’operato della Corte Costituzionale.

Il principio di proporzionalità, nel volgere di pochi anni, ha infatti visto crescere esponenzialmente il proprio ambito operativo: si pensi al superamento dell’impostazione classica del tertium comparationis con la sopra esaminata sent. 236/2016, all’intervento della Corte Costituzionale in relazione anche alle pene accessorie, con la sent. 222/2018, o ancora in materia di illeciti amministrativi, con sent. 112/2019 e, più di recente, con sent. 95/2022, cui sono seguite ulteriori e altrettanto importanti sentenze della Corte Costituzionale, che si intende analizzare in questa sede, per evidenziare il carattere fondamentale che il principio ha assunto nell’ordinamento penale.

Una più recente conferma e applicazione del principio di proporzionalità si registra con riferimento alla sent. 40/2019 della Corte Costituzionale, intervenuta in materia di stupefacenti.

La disposizione censurata puniva con la pena edittale minima di otto anni di reclusione le condotte “non lievi” di cui all’art. 73 del D.P.R. 309/1990, Testo Unico sugli Stupefacenti.

Il giudice a quo ha rilevato che la previsione della pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni in luogo di quella di sei anni, introdotta con l’art. 4bis del D.L. 272/2005, come successivamente modificato, violasse anzitutto l’art. 25 Cost., poiché tale trattamento sanzionatorio sarebbe stato introdotto nell’ordinamento come conseguenza della sent. 32/2014 della Corte Costituzionale, in violazione del principio della riserva di legge in materia penale, in base al quale gli interventi volti a inasprire le sanzioni appartengono al monopolio esclusivo del legislatore, senza che in tale ambito vi sia margine di azione per le sentenze manipolative di questa Corte.

In secondo luogo, l’ordinanza ha denunciato una violazione dell’art. 3 Cost. in quanto la disposizione censurata delineava un trattamento sanzionatorio irragionevole, ritenendo irragionevole il divario sanzionatorio tra la fattispecie di cui al comma primo dell’art. 73, nel minimo edittale (all’epoca pari a otto anni di reclusione), rispetto alla pena detentiva massima irrogabile per i casi di lieve entità, di cui all’art. 73, comma 5, cit. (sa sei mesi a quattro anni di reclusione), nonostante la linea di demarcazione «tra le due fattispecie non sia sempre netta.

Infine, il giudice a quo sostiene che la predicata irragionevolezza contrasterebbe con gli artt. 3 e 27 Cost., poiché la previsione di una pena ingiustificatamente aspra e sproporzionata rispetto alla gravità del fatto ne pregiudicherebbe la funzione rieducativa.

Nell’affrontare la questione, la Corte Costituzionale, con la sent. 40/2019, ha in primo luogo ritenuto inammissibile la questione sollevata in riferimento all’art. 25, comma 2, Cost. rilevando che la sent. 32/2014 si è limitata a rimuovere dall’ordinamento le disposizioni costituzionalmente illegittime sottoposte al suo esame, nello svolgimento del compito assegnatole dall’art. 134 Cost., con l’effetto peraltro di far tornare in vigore disposizioni previgenti, frutto di precedenti scelte del legislatore.

La Consulta si è invece pronunciata in ordine alle ulteriori censure, sollevate con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., evidenziando preliminarmente che i propri recenti precedenti in materia (sent. 179/2017, 148 e 23/2016; ord. 184/2017) si sono limitati a rilevare la inammissibilità delle questioni sollevate, senza affrontarne il merito, laddove nel procedimento deciso con sent. 179/2017, i giudici rimettenti non avevano individuato “soluzioni costituzionalmente obbligate” idonee a rimediare al vulnus costituzionale denunciato.

Nel caso di specie, invece, le questioni prospettate dalla Corte d’appello di Trieste hanno superato il vaglio di ammissibilità, offrendo altresì una soluzione costituzionalmente adeguata, benché non obbligata, nell’abbassamento del minimo edittale da otto a sei anni, come già previsto dall’art. 4bis del D.L. 272/2005 e in linea con la cornice edittale della fattispecie di cui al comma 4 dell’art. 73, punita con la reclusione da due a sei anni, che opera quando le medesime condotte abbiano ad oggetto cc.dd. “droghe leggere”, di cui alla Tabella II (in sostanza, hashish e marijuana).

Nell’affrontare la questione, la Corte Costituzionale coglie l’occasione per stigmatizzare l’inerzia del legislatore, evidenziando che “è rimasto inascoltato il pressante invito rivolto, con sent. 179/2017, al legislatore affinché procedesse “rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell’art. 73 del D.P.R. 309/1990», anche in considerazione «dell’elevato numero dei giudizi, pendenti e definiti, aventi ad oggetto reati in materia di stupefacenti”.

La Corte ha quindi ritenuto fondata nel merito la questione di legittimità costituzionale, rilevando che la divaricazione di ben quattro anni, venutasi a creare tra il minimo edittale di pena previsto dal comma 1 dell’art. 73 del D.P.R. 309/1990 e il massimo edittale della pena comminata dal comma quinto dello stesso articolo, ha raggiunto un’ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria.

Si osserva infatti che, come messo in evidenza dal giudice a quo, in molti casi non è agevole distinguere tra ipotesi di lieve entità, sanzionate nel massimo con quattro anni di reclusione, e ipotesi che si collocano nella più grave fattispecie di cui al comma primo, con un conseguente “vasto iato sanzionatorio, evidentemente sproporzionato sol che si consideri che il minimo edittale del fatto di non lieve entità è pari al doppio del massimo edittale del fatto lieve”.

L’ampiezza del divario sanzionatorio condiziona inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito deve compiere al fine di accertare la lieve entità del fatto (ritenuta doverosa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 9 novembre 2018, n. 51063), con il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte.

Ne deriva pertanto una violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., oltre che del principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 Cost.

In linea con quanto affermato, di recente, nella sent. 222/2018, la Corte osserva che allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato, si profila un contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa.

Accolta la questione di legittimità costituzionale, la Corte ha condiviso altresì la misura della pena individuata dal giudice rimettente che, benché non costituzionalmente obbligata, non è apparsa tuttavia arbitraria, in quanto ricavabile da previsioni già rinvenibili nell’ordinamento: difatti, la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine”, che nell’articolato e complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi o a quello superiore della categoria dei reati meno gravi.

È stata pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni.

2.1 La proporzionalità nella conversione della pena

Il principio di proporzionalità è stato invocato anche in relazione al meccanismo di conversione delle pene detentive brevi in pena pecuniaria, come disciplinato dall’art. 53, comma 2, della L. 24 novembre 1981, n. 689, oggetto di una recente sentenza della Corte Costituzionale, 1 febbraio 2022, n. 28, che ne ha dichiarato la parziale incostituzionalità.

In particolare, il Tribunale di Ravenna e il Tribunale di Taranto, hanno sollevato autonome questioni di legittimità costituzionale in relazione alla su citata disposizione, nella parte in cui prevede che, nel determinare il quantum della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva di durata inferiore a sei mesi, il giudice individui il valore minimo giornaliero della sanzione pecuniaria – da moltiplicare poi per i giorni della pena detentiva da sostituire – nella somma indicata dall’art. 135 c.p., pari ad 250,00, anziché nella minor somma di 75,00, prevista dall’art. 459, comma 1bis, c.p.p., in relazione ai decreti penali di condanna.

Viene inoltre ritenuta illegittima la preclusione, per il giudicante, di fare applicazione, in sede di conversione, del disposto dell’art. 133bis c.p., che consente di adeguare l’importo della pena pecuniaria, diminuendola fino a un terzo, in relazione alle condizioni economiche del reo, quando la pena risulti eccessivamente gravosa.

Si ritiene così violato il disposto degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., determinandosi un trattamento sanzionatorio sproporzionato, contrario pertanto alla finalità rieducativa della pena, non potendo che essere percepita come ingiusta dal condannato, pregiudicandone il percorso rieducativo.

In tal senso si richiama altresì l’art. 117, comma 1, Cost. in relazione al su richiamato art. 49, par. 3, CDFUE, che vieta l’irrogazione di pene sproporzionate rispetto al fatto commesso.

In ordine all’inoperatività dell’art. 133bis c.p., si ritiene inoltre che tale preclusione sia foriera di discriminazioni ingiustificate e basate sul reddito dei condannati, consentendo solo ai più facoltosi di accedere alla pena alternativa pecuniaria.

La Corte Costituzionale è intervenuta sulla materia con la precedente sent. 16 gennaio 2020, n. 15, con cui aveva tuttavia dichiarato inammissibile analoga questione di legittimità costituzionale sollevata però con riferimento all’art. 135 c.p., rivolgendo un monito al legislatore affinché modificasse la complessiva disciplina di determinazione della pena pecuniaria, per garantire una commisurazione proporzionata della stessa rispetto alla gravità del reato e alle condizioni economiche del reo.

A fronte dell’inerzia del legislatore tuttavia, con la sentenza del 2022, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina in esame, ritenuta in contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione.

Ribadendo il fondamento e la portata del principio di proporzionalità della pena, la Corte muove dalle finalità perseguite attraverso la previsione della sostituzione della pena detentiva breve con pene sostitutive, tra cui la pena pecuniaria, volte ad evitare gli effetti negativi della detenzione sul condannato a pene non particolarmente gravi.

La Consulta ha quindi evidenziato le peculiarità che la pena pecuniaria presenta, in quanto destinata ad incidere sul patrimonio del destinatario, rispetto al quale la pena finisce per assumere un distinto grado di afflittività in ragione delle condizioni economiche e reddituali del singolo condannato.

Occorre pertanto prevedere “rimedi atti a salvaguardare l’efficacia e la concreta uguaglianza dell’effetto della pena pecuniaria, mediante meccanismi d’adeguamento alle diverse condizioni economiche dei condannati”, come già sancito dalla stessa Corte Costituzionale con sent. 16 novembre 1979, n. 131.

In particolare, appare problematico il valore del minimo della pena, eccessivamente elevato, specie a seguito della sua inderogabilità, sancita con L. 12 giugno 2003, n. 134, che ha eliminato dal testo dell’art. 53 cit., il richiamo all’art. 133bis c.p.

La quota minima determinata per effetto del combinato disposto tra l’art. 53 cit. e l’art. 135 c.p., cui fa rinvio, risulta dunque, per la Corte, superiore rispetto alla capacità economica media, considerato che la somma minima irrogabile (stante la previsione dell’art. 23 c.p. che individua la durata minima della detenzione in 15 giorni, da moltiplicarsi per la quota minima di 250 euro per giorno) è pari a 3750 euro, con un massimo edittale (potendosi convertire pene detentive sino a sei mesi di reclusione o arresto) che raggiunge i 45.000 euro.

Viene pertanto ravvisato dalla Corte un contrasto rispetto sia all’art. 3, comma 2, Cost., in quanto la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria finisce per divenire un privilegio per i soli condannati abbienti, sia in relazione all’art. 27, comma 3, Cost., in quanto il ricorso alla pena sostitutiva viene notevolmente ridotto, frustrando la ratio dell’istituto di risocializzazione del condannato.

Stante dunque la necessità di individuare un minimo edittale proporzionato, la Corte accoglie le sollecitazioni dei giudici rimettenti, estendendo alla sostituzione delle pene detentive brevi il sistema di conversione stabilito dall’art. 459, comma 1bis, c.p. in relazione ai decreti penali di condanna, pur con esclusivo riferimento all’individuazione del minimo edittale.

In accoglimento della questione di legittimità costituzionale, pertanto, la Corte ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 2, della L. 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui prevede che «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare», anziché «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore a 75 euro e non può superare di dieci volte la somma indicata dall’art. 135 del codice penale”.

La sentenza è stata altresì occasione per un nuovo monito al legislatore, affinché sia data prontamente attuazione alla disposizione contenuta nell’art. 1, comma 17, della L. 27 settembre 2021, n. 134, c.d. riforma Cartabia, nella parte in cui delega il Governo a prevedere che il valore giornaliero, al quale può essere assoggettato il condannato in caso di sostituzione della pena detentiva, debba essere individuato, nel minimo, “in misura indipendente dalla somma indicata dall’art. 135 del codice penale”.

Si esorta altresì il legislatore, più in generale, a restituire effettività alla pena pecuniaria, in quanto “soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurane poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei”.

Il principio di proporzionalità della pena è stato più di recente invocato dalla Corte Costituzionale tra i parametri violati dalla disciplina dell’art. 69, comma 4, c.p., dichiarato con sent. 73/2020 incostituzionale “nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 89 cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.”.

Nella sentenza in commento, la Corte muove da una ricostruzione della disciplina dell’art. 69 c.p. e della sua evoluzione normativa e giurisprudenziale, per concentrarsi quindi sul fondamento e sulla portata del principio di proporzionalità.

La Corte afferma, al riguardo, che “il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato, da tempo affermato […] sulla base di una lettura congiunta degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. (a partire almeno dalla sentenza 343/1993; in senso conforme, ex multis, sent. 40/2019, 233/2018, 236/2016), esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sent. 222/2018)”.

Al riguardo si evidenzia che il disvalore soggettivo del fatto commesso è intimamente legato all’intensità dell’elemento soggettivo nonché alla rimproverabilità più in generale del reo.

Occorre pertanto “che al minor grado di rimproverabilità soggettiva corrisponda una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe applicabile a parità di disvalore oggettivo del fatto, «in modo da assicurare altresì che la pena appaia una risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile “individualizzata”, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di “personalità” della responsabilità penale di cui all’art. 27, comma 1, Cost.» (sent. 222/2018).

Emerge dunque in maniera ancor più chiara il profilo soggettivo di individualizzazione della risposta sanzionatoria, che costituisce la più intensa proiezione del principio di proporzionalità, sì da poter affermare che il principio in esame presenti un duplice stadio, oggettivo e soggettivo, che la Corte Costituzionale è chiamata a valutare.

Tanto premesso, dunque, in merito principio di proporzionalità, la Corte ha ritenuto che la disciplina censurata, nella parte in cui vieta in modo assoluto al giudice di ritenere prevalente la circostanza attenuante del vizio parziale di mente in presenza dalla recidiva reiterata, appare incompatibile “con l’esigenza, di rango costituzionale, di determinazione di una pena proporzionata e calibrata sull’effettiva personalità del reo, esigenza che deve essere considerata espressiva – con le parole della sent. 251/2012 – di precisi «equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale»”.

Si rileva infatti che il divieto “non consente al giudice di stabilire, nei confronti del semi-infermo di mente, una pena inferiore a quella che dovrebbe essere inflitta per un reato di pari gravità oggettiva, ma commesso da una persona che abbia agito in condizioni di normalità psichica, e pertanto pienamente capace – al momento del fatto – di rispondere all’ammonimento lanciato dall’ordinamento, rinunciando alla commissione del reato. E ciò anche laddove il giudice – come nel caso del giudizio a quo – ritenga che le patologie o i disturbi riscontrati nel reo abbiano inciso a tal punto sulla sua personalità, da rendergli assai più difficile la decisione di astenersi dalla commissione di nuovi reati, nonostante l’ammonimento lanciatogli con le precedenti condanne.

Ne deriva una indebita parificazione sotto il profilo sanzionatorio di fatti di disvalore essenzialmente diverso, in ragione del diverso grado di rimproverabilità soggettiva che li connota, tale per cui la questione è stata dichiarata fondata, nei termini sopra precisati.

Con la sentenza esaminata, dunque, la Corte Costituzionale, che già con la sopra citata sent. 222/2018 aveva ritenuto illegittime le forme di automatismo sanzionatorio, incapaci di adattare la risposta dell’ordinamento al fatto concreto, ha affiancato alla obiettiva gravità del fatto (valorizzata nella sopra esaminata sent. 40/2019) un profilo di valutazione di natura soggettiva, legato al grado di rimproverabilità del reo.

È importante il passaggio della motivazione, sopra richiamato, in cui il giudice delle leggi riconosce natura duale al proprio giudizio in ordine alla proporzionalità della risposta sanzionatoria, con uno stadio oggettivo e soggettivo.

Nell’ultimo anno sono state molteplici le pronunce della Corte Costituzionale che, in attuazione del principio di proporzionalità della pena, sono intervenute sulla disciplina dell’art. 69 c.p., censurando, in particolare, le limitazioni che il legislatore del 2005, con legge n. 251, c.d. ex Cirielli, ha imposto al Giudice nel bilanciamento delle circostanze.

In particolare, con sent. 11 marzo 2021, n. 55, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma quarto dell’art. 69 c.p., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, comma 2, c.p., nei casi di c.d. concorso anomalo, sulla recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p.

Nel dichiarare fondata la questione, la Corta ha ricostruito il quadro della giurisprudenza costituzionale intervenuta in materia di bilanciamento delle circostanze, evidenziando che eventuali limitazioni al potere discrezionale del giudice penale sono da ritenere legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, a condizione che non trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio e che non determinino un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti, con riferimento al sistema sanzionatorio penale.

Con particolare riferimento al concorso anomalo e all’attenuante prevista ex art. 116, comma 2, c.p. per il concorrente che non abbia voluto il reato diverso realizzato dai concorrenti, la Consulta ha evidenziato il diverso atteggiamento psicologico che caratterizza l’operato del reo rispetto a quello dei concorrenti, cui corrisponde un diverso grado di rimproverabilità (si pensi al caso in cui, nel corso di una rapina realizzata in concorso tra più persone, presso un’abitazione privata, vengano cagionate lesioni gravissime ai danni delle vittime da parte di alcuno dei concorrenti, all’insaputa e comunque senza previo accordo con gli altri).

Nonostante (come si avrà modo di osservare nella trattazione del concorso anomalo) il concorrente che non abbia voluto il delitto diverso ne risponda in quanto sviluppo logicamente prevedibile del reato comune, il trattamento sanzionatorio sarà il medesimo rispetto ai correi che abbiano agito con dolo, salva la previsione dell’attenuante di cui all’art. 116, comma 2, c.p.: “ove il reato commesso risulti più grave di quello voluto, la pena è diminuita in misura non eccedente un terzo”.

È apparso dunque irragionevole ai giudici della Corte Costituzionale limitare il potere discrezionale del giudice nel bilanciamento delle circostanze, precludendo così gli effetti e la funzione di riequilibrio sanzionatorio dell’attenuante in questione in caso di contestata recidiva reiterata.

Inoltre, la Consulta ribadisce, nella sentenza in esame, che un trattamento sanzionatorio sproporzionato impedisce alla pena di esplicare la propria funzione rieducativa con violazione dell’art. 27, comma 3, Cost., dichiarando pertanto incostituzionale la norma predetta.

L’inarrestabile processo di riconoscimento del ruolo del principio di proporzionalità quale parametro fondamentale di legittimità dell’ordinamento penale sanzionatorio ha registrato una nuova e rilevante tappa nella recente sent. 8 luglio 2021, n. 143, della Corte Costituzionale.

In particolare, la Corte è stata chiamata dalla Corte di Cassazione, con ord. 158/2020, a pronunciarsi in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4, c.p., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza dell’attenuante del “fatto di lieve entità”, in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata, di cui all’art. 99, comma 4, cod. pen.

La rilevanza della questione è stata ancorata alla particolare situazione, venutasi a creare del giudizio in cui è stata sollevata la questione, dal momento che, riconosciuta la predetta attenuante in favore dei cinque imputati, solo per due di essi è stato possibile ritenerla prevalente sulla contestata recidiva: a parità delle condotte, pertanto, i restanti imputati hanno visto riconosciuta la sola equivalenza dell’attenuante, con conferma della condanna a venticinque anni di reclusione, inflitta in primo grado.

La Corte di Cassazione, richiamata la giurisprudenza della Corte Costituzionale sopra esaminata, con particolare riferimento alle pronunce intervenute in ordine al divieto di prevalenza sancito dall’art. 69 c.p. rispetto alla recidiva reiterata, ha ravvisato un contrasto, nel caso di specie, con gli artt. 3, 25 e 27 Cost.: in particolare, l’eccezionale asprezza del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 630 c.p., unitamente all’impossibilità di applicare la diminuzione di pena prevista dall’attenuante della lieve entità, risulterebbe contraria al principio di proporzionalità della pena in quanto impedisce il necessario adeguamento della stessa al fatto di particolare tenuità della condotta.

Il trattamento sanzionatorio sproporzionato rispetto al reato commesso sarebbe inoltre percepito, secondo il giudice a quo, come ingiusto dal condannato e, perciò, risulterebbe inidoneo a svolgere la funzione rieducativa prescritta dall’art. 27 Cost., con conseguente violazione del principio di eguaglianza in ragione dell’ingiustificata disparità della risposta sanzionatoria rispetto agli altri imputati non gravati da recidiva reiterata.

La Corte Costituzionale, con la sentenza in esame, ha ritenuto fondate le censure mosse dalla Corte di Cassazione, ravvisando una violazione degli artt. 3, comma 1, e 27, comma 3, Cost., a conferma del fondamento costituzionale del principio di proporzionalità.

Ricostruita l’evoluzione normativa del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, con particolare riferimento al trattamento sanzionatorio, la Corte ha richiamato la sent. 68/2012, con cui ha riconosciuto che la cornice edittale prevista per tale delitto costituiva “una risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza”, destinata a trovare applicazione anche a fronte di condotte di assai minore gravitàche non vedono il pericolo di vita per la persona sequestrata e che non si inseriscono in un contesto associativo criminale mirato proprio a perpetrare tali condotte delittuose”, ivi compresi i sequestri di breve o brevissima durata o realizzati con l’intento del reo di ottenere dalla persona sequestrata una prestazione patrimoniale alla quale ritiene di aver diritto.

Il trattamento sanzionatorio, consistente nella reclusione da venticinque a trenta anni, è stato dunque ritenuto ingiustificato, con conseguente l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p., “nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”.

La sent. 68/2012 si pone perfettamente in linea con il principio di proporzionalità, laddove espressamente persegue il fine di “mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale”.

Dato atto della genesi dell’attenuante del fatto di lieve entità, la Corte procede quindi a ricostruire la disciplina del bilanciamento delle circostanze, ivi compreso il limite introdotto dalla L. 251/2005, ex Cirielli, rispetto alla prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata.

Tra i precedenti rilevanti, la Corte menziona altresì le sopra esaminate sent. 73/2020 e 55/2021, ritenendo che, anche in ordine alla disciplina del sequestro di persona a scopo di estorsione, nelle ipotesi di lieve entità, ricorra la necessità di un “riequilibrio del trattamento sanzionatorio”.

Viene inoltre evidenziato, nella sentenza n. 143, che la cornice edittale prevista per l’art. 630 c.p. presenta la peculiarità di prevedere una pena detentiva molto elevata, sia nel minimo (venticinque anni di reclusione), sia nel massimo (trenta anni), con una “forbice edittale” ridotta a soli cinque anni; tale situazione rende ancor più importante la funzione di riequilibrio della diminuente della lieve entità, sicché il divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata “finisce per disconoscere il principio della necessaria proporzione della pena rispetto all’offensività del fatto.

La Corte osserva inoltre che, come già avvenuto con la sopra esaminata sent. 55/2021, la violazione del principio di proporzionalità non necessità che l’effetto dell’attenuante risulti speciale (superiore cioè ad un terzo della pena base), ben potendo ravvisarsi a fronte della preclusione di un effetto attenuante comune (contenuto entro il predetto valore di un terzo): la funzione di riequilibrio di un trattamento sanzionatorio di particolare rigore è infatti ritenuta la medesima, a prescindere dunque dall’entità della riduzione di pena consentita.

Alla luce di tali osservazioni, pertanto, la Corte ribadisce espressamente il principio della necessaria proporzione della pena rispetto all’offensività del fatto, osservando che esso risulterebbe vanificato da una “abnorme enfatizzazione” della recidiva che determini una irragionevole compromissione della necessaria funzione di riequilibrio sanzionatorio svolta dall’attenuante oggetto del giudizio, da ritenersi incompatibile con il principio di determinazione di una pena proporzionata, idonea a tendere alla rieducazione del condannato ai sensi dell’art. 27, comma 3, Cost., che implica “un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (Corte Cost. 23 luglio 2015, n. 185).

Si afferma inoltre che, per effetto di tale divieto, fatti di minore entità possono essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista per le ipotesi più gravi, nonostante risultino completamente differenti con riguardo alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo.

La sentenza, oltre a ricostruire l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia, ne offre una felice sintesi, confermando la centralità e l’attualità del principio di proporzionalità.

3. Novità giurisprudenziali

Un più recente intervento della Corte costituzionale in relazione al trattamento sanzionatorio derivante dall’applicazione di circostanze aggravanti si è registrato con sent. 10 marzo 2022, n. 63, con cui la Corte si è pronunciata in ordine alla pena prevista per il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare aggravato.

In particolare, il Tribunale di Bologna ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 12, comma 3, lett. d), D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, ravvisando un contrasto con i principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e di proporzionalità della sanzione penale, ex artt. 3 e 27, comma 3, Cost., nella parte in cui prevede, per le condotte di favoreggiamento dell’ingresso irregolare realizzate “utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti” la pena aggravata della reclusione da cinque a quindici anni e della multa di 15.000 euro per ogni straniero favorito.

Il giudice a quo ha infatti ritenuto tale impianto sanzionatorio, previsto per la forma aggravata del delitto, contrastante con il principio di proporzionalità, in quanto manifestamente eccessivo e tale da pregiudicare il percorso rieducativo del reo.

Si osserva, in particolare, nell’ordinanza di rimessione, che tale severità sanzionatoria potrebbe trovare giustificazione con esclusivo riferimento alle condotte di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare caratterizzate da uno scopo di lucro, poste in essere dai cc.dd. smugglers of migrants, che peraltro risultano ulteriormente aggravate ai sensi del comma 3ter dell’art. 12 cit.

Nell’accogliere la questione, la Corte costituzionale ha preso le mosse dall’esame della qualificazione della norma sub iudice in termini di circostanza aggravante, ritenendo quindi manifestamente sproporzionata la pena della reclusione da cinque a quindici anni di reclusione prevista per chi abbia aiutato qualcuno a entrare illegalmente nel territorio italiano utilizzando un aereo di linea e documenti falsi.

La Corte ribadisce quindi che il vaglio di legittimità costituzionale della pena, sotto il profilo della proporzionalità, può essere effettuato tanto con riferimento alle pene previste da altre norme incriminatrici o aggravanti, secondo il modello del tertium comparationis, quanto valorizzando l’intrinseca gravità delle condotte sanzionate. In tal caso è ravvisabile una manifesta sproporzione del trattamento sanzionatorio ogniqualvolta il legislatore preveda una misura minima della forbice edittale eccessivamente elevata, vincolando così il giudice a comminare pene non proporzionate al disvalore delle condotte tipiche di minima gravità.

Nel caso di specie, le severe pene stabilite per le ipotesi aggravate di favoreggiamento dell’immigrazione trovano, secondo la Corte, giustificazione esclusivamente in chiave di contrasto al traffico internazionale di migranti, gestito da organizzazioni criminali che ricavano da questa attività ingenti profitti, risultando invece manifestamente sproporzionate rispetto a situazioni in cui non risulti alcun coinvolgimento in tali organizzazioni.

Difatti, la condotta non aggravata del delitto ex art. 12 cit., punita con la pena della reclusione da uno a cinque anni, risulta funzionale alla gestione ordinata dei flussi migratori, bene giuridico strumentale rispetto a interessi generali quali gli equilibri del mercato del lavoro, le risorse limitate del sistema di sicurezza sociale, l’ordine e la sicurezza pubblica.

Si tratta di interessi di rilevanza altresì europea, rispetto ai quali il diritto dell’Unione pone a carico degli Stati membri l’obbligo di prevedere sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive a carico di chi intenzionalmente aiuti un cittadino di uno Stato terzo a entrare o a transitare illegalmente nel territorio di uno Stato membro.

A differenza della fattispecie base, le forme aggravate di cui alle lett. b) e c), per le quali sono previste pene assai più severe, sono poste a tutela (oltre che del controllo dei flussi migratori) anche degli interessi del migrante che versi in stato di bisogno, anche estremo, tale da costringerlo a intraprendere viaggi di fortuna, spesso con esiti fatali, in condizioni degradanti e inumane.

In relazione a siffatte ipotesi, sussistono altresì obblighi internazionali di aggravio della pena, come previsto dal c.d. Protocollo di Palermo, nonché dal c.d. Facilitators Package (ossia l’insieme delle regole dell’Unione Europea relaive alla definizione e alla prevenzione dell’agevolazione di ingresso, transito e permanenza non autorizzata in territorio europeo) impone per la prima ipotesi l’adozione di pene detentive non inferiori, nel massimo edittale, a otto anni.

La Corte osserva tuttavia che, in relazione alle ipotesi di cui alla lett. d) dell’art. 12, l’utilizzo di un mezzo di trasporto internazionale, come un aereo di linea, comporta che il soggetto si sottoponga necessariamente a tutti gli ordinari controlli di frontiera, che consentono l’identificazione di stranieri privi di autorizzazione all’ingresso nel territorio italiano, senza che possano essere poste in essere condotte particolarmente insidiose o tali da creare speciali difficoltà di accertamento alla polizia di frontiera; nel contempo, l’utilizzo di un documento falso presuppone, a monte, la commissione di un reato che tuttavia riceve un trattamento sanzionatorio notevolmente inferiore da parte dell’ordinamento.

In mancanza pertanto di ulteriori circostanze aggravanti, non si giustifica, per le condotte caratterizzate dalle circostanze di cui alla lettera d), un trattamento sanzionatorio diverso rispetto a quello base di cui al primo comma dell’art. 12 del Testo unico, fermo restando l’eventuale concorso con il delitto di utilizzazione di documenti falsi.

Pertanto, la parificazione sul piano sanzionatorio delle due condotte di utilizzo di servizi internazionali di trasporto e di uso di documenti contraffatti, alterati o illecitamente ottenuti, rispetto a le ulteriori forme aggravate del delitto in questione, lascia emergere il carattere manifestamente irragionevole della scelta operata dal legislatore, non risultando indicative del coinvolgimento dell’agente in un’attività di traffico internazionale di migranti. La Corte ha quindi dichiarato parzialmente incostituzionale la lett. d) dell’art. 12 cit., eliminando dalla disposizione il riferimento all’utilizzo di servizi internazionali di trasporto ovvero di documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti.

*ARTICOLO di Angelo Salerno – estratto da Obiettivo Magistrato n. 63/Aprile 2023 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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